Una serie di imprese, quelle del parroco Bertasi, davvero provvidenziali per l’abitato di Volta tra Otto e Novecento; per numero e qualità in rapporto alla situazione, esse inducono a dire che il paese conobbe allora un Angelo di nome e di fatto. Ma di tutte, la sua impresa più significativa fu quella cui si è soltanto accennato, l’istituzione di una nuova famiglia religiosa. La più significativa: perché senza di essa non avrebbe potuto vivere la maggioranza delle altre; perché, mentre le altre si sono trasformate o sono state superate dall’evolversi dei tempi, questa dura tuttora; perché questa ha esteso il suo raggio d’azione ben al di là della parrocchia dov’è nata, connotando da allora la storia della diocesi mantovana. La nuova congregazione nacque, com’è ovvio, per gradi, anchein rapporto a una serie di suggestioni e incontri dietro i quali non si può non vedere un disegno della divina Provvidenza. Si è già ricordato quale ammirazione avesse suscitato in don Angelo quella che per lui era una novità, il multiforme impegno delle Figlie della Carità conosciute a Suzzara. A loro si possono aggiungere l’esempio e i consigli di Teresa Fardella de’ Blasi, che a Mantova andava costituendo anch’ella una nuova famiglia religiosa, le Povere Figlie di Maria Santissima Incoronata. Quando conobbe Itala Vittoria Ganzerla, una vedova di profondi sentimenti cristiani, che aveva assistito il marito nella sua lunga malattia portandolo ad abbracciare la fede, don Angelo intuì che poteva essere lei, trasferitasi dalla città a Volta per assistere un ammalato, la persona mandatagli dalla Provvidenza per avviare la sua fondazione. A lei si unirono due giovani, poi altre quattro, e a quelle sette “buone samaritane” don Angelo affidò progressivamente l’ospedale-ricovero, l’assistenza domiciliare, la cucina per i poveri, la scuola, l’oratorio e l’accoglienza delle orfanelle; nel contempo le andava formando sul piano spirituale, nei fondamentali orientamenti che guidano la vita delle suore: la preghiera, l’inesausta carità verso i bisognosi, i tre voti di povertà, castità e obbedienza. Formalmente suore lo divennero il giorno di Natale dell’anno 1900, quando, con l’approvazione del vescovo, emisero la loro professione religiosa. Vescovo di Mantova era allora Paolo Carlo Origo, che era stato scelto nella congregazione milanese denominata degli Oblati dei santi Ambrogio e Carlo. Questi precedenti spiegano il nome scelto per la congregazione di don Bertasi: Oblate dei poveri di Maria Santissima Immacolata. Di tale nome si intuisce la triplice origine: il riferimento alla Santa Vergine rimanda alla congregazione di Teresa Fardella; l’Oblate, a quella donde proveniva il vescovo; nella cura di specificare dei poveri, la sottolineatura del fondatore, che dei poveri aveva fatto i destinatari privilegiati della sua azione. Ma c’è di più. Oblato significa “offerto”: è un termine desueto, che evoca però significati profondi. Oblati si dicevano nel Medio Evo coloro che spontaneamente si offrivano per tutta la vita al servizio di un monastero; oblate si chiamavano un tempo le offerte raccolte in chiesa durante la messa; soprattutto, “oblazione pura e santa” è quella fondamentale della messa, l’offerta al Padre del sacrificio redentore di Gesù. Considerando ciò, si può meglio comprendere il senso del nome scelto da don Angelo per le sue suore: a imitazione di Gesù, che nell’incarnazione si fa uomo per la salvezza dell’umanità, esse si offrono totalmente per il bene di coloro che Gesù ama, specie i suoi prediletti, cioè i piccoli e i poveri, e lo fanno confidando nel materno aiuto della Santa Vergine. Comprensibilmente, don Angelo seguì la vita delle Oblate con tutta la saggezza e la carità del suo cuore sacerdotale, formandole con una serie di meditazioni di cui si tramandano come perle alcuni concetti fondamentali. Ad esempio, operare nel silenzio, perché “il rumore non fa il bene”; “la carità vale più delle penitenze, se queste vi impedissero di esercitare bene la carità”; “fate tutto per Gesù, non molte cose ma molto bene”; le suore sono instancabilmente operose come le api, “per donare agli altri il dolce frutto del loro amore e del loro lavoro”; “dovete essere piene di luce, ardere di zelo per tutte le anime, e così illuminare quanti vi circondano”. Non preoccupatevi, ripeteva poi, se siete poche e con tante difficoltà: quest’opera è del Signore, provvederà lui a condurla avanti. Provvide, infatti. Don Angelo passò alla patria celeste a soli sessant’anni, il 18 novembre 1907, unanimemente compianto. “A Volta è un vero plebiscito di dolore”, scrisse <Il Cittadino di Mantova>; “un popolo intero dà solenne attestazione della stima illimitata, dell’affetto intenso che portava al suo pastore; egli ha vissuto per il suo popolo e l’aveva amato non a parole ma con opere costantemente vantaggiose e benefiche, privando se stesso”. Eloquente segno della fecondità del suo operato, se alla sua morte le sue suore erano ancora uno sparuto drappello, ben presto crebbero di numero, sicché, se a Volta rimase la casa-madre (con la cappella dove ora le spoglie del fondatore riposano), esse furono in grado di aprire altre case in vari centri della diocesi e anche oltre, prestando opera preziosa specie negli asili d’infanzia e nelle case di riposo, nonché collaborando assiduamente all’attività delle parrocchie. Negli anni sessanta del Novecento ne aprirono una anche a Mantova, coraggiosamente riscattando e restaurando uno dei siti storici più rilevanti della città, la chiesa e il relativo convento di Santa Maria del Gradaro, gravemente degradati dopo la soppressione settecentesca degli ordini religiosi. Qui hanno trasferito la loro casa generalizia; qui, come nelle altre loro comunità, continuano nell’umiltà del quotidiano a far vivere lo spirito consegnato loro da quell’autentico “Angelo” che fu il loro fondatore.