ottobre 2021
È recente l’esperienza del Sinodo nella nostra diocesi di Mantova e, alcuni anni fa, mi azzardavo a tessere alcune considerazioni, cercando di giocare con tre parole – tre realtà – che dovrebbero, anche oggi, alla vigilia di un evento di riflessione e condivisione di tutta la Chiesa, presentarsi unite, indivisibili e programmatiche: sinodo, metodo, esodo.
Allora scrivevo anche che il nostro fu un sinodo tradizionale, organizzato e vissuto come un evento speciale che produsse un documento. Non dobbiamo però dimenticare che la sinodalità è un aspetto costitutivo e quotidiano della vitalità della Chiesa. Sempre siamo chiamati a convertirci a una comunione che è camminare insieme (sun odon). Ma, per non confinare la comunione fraterna e sororale nell’astrazione e nelle buone intenzioni, è necessario coniugare sinodalità e metodo. Il metodo ci dice del come camminare, dello stile, dell’organizzazione del viaggio; viaggio che, alla luce della profezia di papa Francesco sulla "Chiesa in uscita", dovremmo ridefinire come esodo. Camminare insieme per "passare da una pastorale che si limita alla gestione dell’esistente a una pastorale decisamente missionaria". (AP 370) Insomma, convertirsi all’esodo per inspirare cammini di comunione.
Come fare? Il "come" non è qualcosa di esterno e di aggiunto al contenuto, al discorso e alla dottrina. Non è riducibile alla ricerca di dinamiche e tecniche di comunicazione. Il "come" fa parte della ricerca della verità e finisce a volte con il coincidere con la verità. Non è il “come” della ricerca sociologica, che individua tendenze a partire dalle opinioni e considerazioni dei partecipanti. Dovrebbe essere il “come” dello Spirito, che, però, continua libero di soffiare dove e quando vuole, disobbedendo alle nostre intenzioni organizzative e ai nostri propositi riformisti. Spirito Santo che è sempre sorpresa.
Nel Sinodo e, allo stesso tempo, nonostante e oltre il Sinodo.
Se noi, infatti, ripensiamo al Sinodo passato, dovremmo chiederci quali sono stati i frutti del processo.
Se ci giochiamo con sincerità, credo che dovremmo ammettere che i risultati dell’azione dello Spirito siano nascosti nelle pieghe dell’evento e nei cambiamenti avvenuti nelle persone, che, grazie a Dio, non sono rilevabili sociologicamente e quantificabili statisticamente.
Senza dubbio, però, nell’attualità, accompagnando le preoccupazioni di papa Francesco con le malattie dell’autoreferenzialità e del clericalismo, dovremmo davvero optare per un metodo, per un “come”, totalmente nuovo.
Insomma, se vogliamo davvero che quelli che sono “fuori” siano i nostri compagni di strada, non dovremmo preoccuparci di come condurli “dentro” nelle nostre parrocchie e comunità. Ma sarà davvero possibile questa rivoluzione degli spazi, dei territori di incontro e di dialogo? Infatti, incontrarsi con “chiunque”, soprattutto con chi è distante, lontano, oggetto di inferiorizzazione e discriminazione, catalogato con criteri economici, etnici, moralisti, sessisti, patriarcali, esige una rottura radicale non solo della nostra mentalità, ma anche e soprattutto una riformulazione degli spazi, delle gerarchie, delle dottrine e dei poteri.
E ci sono possibilità di rivoluzioni metodologiche, che pongono chi è ai margini, occultato ed escluso non come comparsa, come oggetto di benevolenza, ma come soggetto protagonista in grado di interpellarci e provocarci. Sto pensando ad un concetto relativamente nuovo, che in Brasile, in questi ultimi anni, ha assunto una certa importanza: “o lugar da fala”, il luogo, la situazione da cui si parla.
È stata Djamila Ribeiro che ha inaugurato, con un libro pubblicato nel 2019, l’attenzione al luogo che occupiamo socialmente, il quale ci proporziona esperienze distinte e prospettive diverse.
Se è così, ascoltare allora non è semplicemente porre l’attenzione solo su ciò che viene detto, ma essere attenti anche e soprattutto a chi parla, per ascoltare davvero da dove viene la voce che ci parla.