"Essere preti oggi"
Ho letto il l’articolo di don Giampaolo Ferri intitolato Parroco, il ministero nei cambiamenti di Chiesa e società pubblicato sulla Cittadella del 18 giugno. Subito mi sono detto che quanto era scritto sembrava “un grido” in una situazione sempre più complessa, nella quale ci troviamo come preti a vivere il ministero.
Non ho risposte pronte e preconfezionate, che possono essere valide solo se reggono nella situazione concreta in cui si opera. In Seminario ci è stato insegnato che la spiritualità di un prete ha la sua sorgente in quella che si chiama la carità pastorale. In questa prospettiva anche l’aver ascoltato un povero che bussa alla porta, quale unica persona che varca la canonica nell’arco di un giorno, è oggetto di preghiera davanti al buon Dio.
È tutto vero quello che scrive nell'articolo: sempre più non siamo considerati, ci chiedono dei servizi che noi non siamo capaci di trasformare in domande di fede, in un colpo ci arrivano sulle spalle diverse comunità cristiane da seguire e, non da ultimo, da qualche anno si comincia a parlare di ex-culturazione del cristianesimo dalla vita della gente.
C’è poi una domanda che nei rapporti tra preti spesso si sente: «Ma chi ci vuole bene?». Le comunità alle quali siamo mandati? Forse una volta, quando il prete restava fermo molti anni in un paese, ma oggi, con la mobilità alla quale sono sottoposti i presbiteri, non penso più di tanto, o limitatamente a qualcuno che ha pietà di noi. Meglio tenere ben stretti gli amici che la Provvidenza di Dio ci ha regalato.
Riguardo l’urgenza in cui sono chiamati in causa, nella parte finale dell’articolo, il magistero e i teologi, credo che siano chiare alcune prospettive. Inutile negarlo, ma stiamo arrivando, se non lo siamo già, a essere una “Chiesa di minoranza”. A qualcuno questa espressione non piace e preferisce “Chiesa in diaspora”. Io preferisco l’espressione di papa Benedetto XVI: “Chiesa come minoranza creativa”, che non si chiude, ma rimane aperta a tutti senza neanche la pretesa di convertire. Certo, come diceva il cardinal Martini (che l’articolo stesso cita) “il piccolo gregge” - che il vescovo Carlo Ferrari predicava spesso ai preti come prospettiva di Chiesa - “non può essere un obiettivo pastorale”, ma è la situazione che ci troviamo a vivere oggi e che ci sorprende o spaventa. Ma, se ci pensiamo bene, è sempre stato così. Basta guardare alla storia del popolo d’Israele attestataci dalla Bibbia, e ci accorgiamo che è sempre stato un piccolo gruppo a far ripartire. In Cina, in Iran, in Turchia non è forse già così?
Ritornando a come un prete possa esercitare il suo ministero in tale situazione, che si profila in Italia e in tutta l’Europa, penso anzitutto che occorra pensare a un prete che prima di tutto accetti di non essere più al centro e, di conseguenza, non cercato. Insomma che si converta di appartenere con libertà a un piccolo segno senza pretese, ma sapendo che di certo è sui passi del Signore Gesù Cristo.
Per reggere in tale situazione non vedo, per il futuro, preti che vivano da soli, isolati. Penso che in futuro verrà prima l’esperienza di presbiterio che la gente. Progettare una canonica con equilibrati spazi di autonomia e di condivisione non penso sia impossibile! Dobbiamo avere poi il coraggio di affidare molto nostro lavoro ai laici (i documenti della CEI e della CEL sulle ministerialità andrebbero presi in considerazione con urgenza, perché serviranno degli anni per innervare il tessuto pastorale).
Quanto alla tanta ricerca dell’essenziale della vita del prete, oltre a dirlo e a scriverlo mi sembra che nessuno aiuti in tale ricerca i presbiteri nel pieno del lavoro pastorale. È qui che sarebbe importante recuperare uno spazio o spazi di riflessione, di confronto, che uniscano tutte le generazioni. Non c’è bisogno di timbri e di ufficialità, ma solo del desiderio di pensare il futuro nell’essenzialità, perché non passerà molto tempo da quando saremo travolti da una situazione completamente nuova.
Tutto questo mi sembra importante, perché stiamo in piedi non tanto per le cose che facciamo, ma per l’essere che siamo.