Appuntamenti

Ordinazione presbiterale di don Guido Belli

Mantova - Basilica di Sant'Andrea

9/11/2025

16.30

Con grande gioia la Chiesa mantovana invita a partecipare all’ordinazione presbiterale di don Guido Belli, che si terrà nella Basilica Concattedrale di Sant’Andrea domenica 9 novembre alle ore 16.30.

Uniti nella preghiera, accogliamo con gratitudine questo dono che il Signore fa alla nostra Chiesa diocesana.

Don Guido ha 39 anni ed è originario della parrocchia di Castel Goffredo. La sua è la vocazione di un “giovane adulto”: è entrato in Seminario sette anni fa, dopo aver esercitato la professione di avvocato per qualche tempo.

«Spesso i miei amici mi chiedono se mi mancano la vita di prima o il mio lavoro - racconta -: a loro rispondo che sono grato per ciò che ho fatto in quegli anni, ma che non c’è nulla di più bello che sentirsi amati. E io mi sono sentito – e mi sento continuamente – amato da Dio, così come sono, anche con le mie fragilità, e non ho altro desiderio se non quello di trasmettere ad altri quell’amore, che è l’amore vero e concreto di chi ha donato la propria vita per noi».

Don Giampaolo Ferri ha raccolto la sua testimonianza a proposito del passo che sta vivendo e della sua esperienza di Chiesa:

Caro Guido, stai per ricevere l’ordinazione sacerdotale in un momento storico caratterizzato da profondi cambiamenti ecclesiali, anche dentro la Chiesa mantovana. Come vedi il tuo ministero nei prossimi anni?

È vero, stiamo vivendo tanti e rapidi cambiamenti ed è difficile dire dove stiamo andando, anzi forse non lo sappiamo proprio. Ma mi rassicura pensare che, in fondo, è stato così anche per Abramo, che per fede ha lasciato la sua comfort zone (il suo paese, la sua patria, la sua casa) per incamminarsi verso una meta non meglio precisata, accompagnato dalla fedeltà e dalla benedizione di Dio. Essere preti in questo tempo, e in quello a venire, per me vuol dire anzitutto uscire dalle proprie sicurezze e inoltrarsi in un futuro indubbiamente incerto, ma ugualmente fondato e garantito su quella promessa di Dio.

Mi sembra importante ricordarci tutti, chierici e laici, che la Chiesa è di Cristo, non nostra, e che tutti, in quanto fedeli, siamo chiamati a prestare a Lui la nostra voce e le nostre mani, il nostro cuore e la nostra attenzione, perché possa operare attraverso di noi. Credo che, ai preti in particolare, il Signore chieda non tanto di pensare e attuare tanti e articolati programmi pastorali, ma di mettersi continuamente in ascolto della Sua volontà, di intuire le Sue sollecitazioni, e muoversi di conseguenza, per capire il futuro che Lui dischiude.

Essere preti oggi significa anche fare come Giovanni Battista, cioè distogliere l’attenzione da sé stessi, per mostrare e rendere visibile Dio e ciò che lui opera per la sua Chiesa. Ai preti è chiesto di dare espressione a Dio, senza nessuna paura e affrontando con coraggio le sfide che il presente riserva, liberi sia dalla rassegnazione che dalla frenesia dell’agire, liberi dall’angoscia dei risultati e dalla preoccupazione del proprio efficientismo, perché il futuro è affidato a Dio.

Il processo sinodale avviato da papa Francesco ha “riscoperto” il ruolo centrale del Popolo di Dio, aiutando a rivalutare la dignità del battesimo e la corresponsabilità di tutti e tutte nella Chiesa. Quali conseguenze pratiche potranno esserci anche nel tuo ministero?

Senz’altro l’acquisizione più immediata del processo sinodale avviato da papa Francesco è quello della valorizzazione dei battezzati e dell’articolazione ministeriale, per cui come Chiesa stiamo crescendo nella consapevolezza che ogni battezzato è soggetto attivo e responsabile della missione ecclesiale. Credo che per un prete di oggi questo significhi ripensare la governance (il “governo”) pastorale in chiave sinodale e di corresponsabilità, come équipe ministeriale che vede la partecipazione dei laici alla conduzione pastorale. Certo questo richiede, concretamente, una conversione di mentalità, che superi l’asse clericale e verticistico parroco-parrocchia in favore di un’asse comunitario équipe-unità pastorali. Questo in qualcuno può creare un certo sospetto o una certa paura, ma credo che la governance pastorale pensata come équipe ministeriale non sia in concorrenza con il ministero specifico della presidenza da parte del presbitero, ma anzi ne attui il carattere costitutivamente sinodale.

Sempre meno giovani scelgono la strada del ministero ordinato. Per quali motivi, secondo te?

Credo che i motivi vadano cercati nella condizione giovanile di questi tempi, caratterizzata dall’incertezza, dalla paura di non riuscire a realizzarsi, dal timore di essere soli, dalla dipendenza dall’approvazione degli altri, dal terrore di non piacere, dalla sovraesposizione mediatica. Insomma, da una fragilità e da una precarietà che sicuramente non aiutano e che hanno risvolti importanti anche sulle scelte, in particolare quelle d’amore che, invece, chiedono donazione gratuita e definitiva.

Sei nato e cresciuto in una parrocchia, a Castel Goffredo, vivace e piena di stimoli, ma vi sono anche altre realtà diocesane molto più “povere”. Ritieni che la parrocchia possa giocare ancora un ruolo decisivo nella vita di un giovane?

Sono convinto che oggi, più che un tempo, quando parliamo di “Chiesa” dobbiamo farlo avendo bene in mente non tanto la parrocchia, cioè un determinato territorio precisamente definito, ma una comunità di fedeli che, sebbene legata ad un certo luogo, non si esaurisce in esso. Oggi, infatti, per la stragrande maggioranza dei fedeli – giovani per primi – gli spazi vitali ed esperienziali si estendono ben al di là dell’ambito parrocchiale, ed è in quelli che si deve annunciare, celebrare e vivere la fede. Pensiamo alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dello sport… La vita sociale non si svolge più solamente nelle “strette” comunità: molto spesso, infatti, le attività praticate dai giovani nello sport e nel tempo libero non coincidono più con la parrocchia. I giovani possono contare, oggi, su un’ampia mobilità, che allarga sensibilmente le relazioni con giovani di altra provenienza.

Credo sia importante prendere atto del fatto che, sempre più, c’è una netta distinzione tra luogo di residenza e spazio vitale dove i giovani si formano e lavorano, impiegano il tempo libero, fanno shopping, si divertono, coltivano le amicizie… Questo ci chiede di superare i rigidi confini parrocchiali, in favore di comunità “sovralocali” di libera scelta, in cui sia possibile costruire rapporti personali, condividere le proprie condizioni di vita e scambiare esperienze di fede. Insomma, comunità belle e connesse! Bisogna guardare con favore alle unità pastorali, investendo in esse le energie pastorali, perché molte delle parrocchie attuali risultano troppo piccole per comunità che rispondano alle differenti istanze, interessi e bisogni dell’uomo contemporaneo, dove stabilire un rapporto di comunione con Dio e con i fratelli, in sintonia con il Vangelo.

Alla luce della tua esperienza pastorale, maturata in questi anni di formazione, quale credi possa essere un ambito privilegiato nel quale i preti del futuro dovrebbero investire?

Penso ai giovani in particolare, perché – come ha scritto qualcuno – per molti di loro la fede è come se fosse una brace accesa, ma coperta dalla cenere. Per quello che ho sperimentato in questi anni in tante esperienze con i giovani, la loro fede è viva, hanno senso e sete di Dio, ma c’è bisogno di qualcuno che soffi via la cenere, così che la brace torni ad ardere e a scaldare. Certo quella brace non sempre è facilmente visibile, soprattutto dagli adulti, ma dobbiamo avere, come preti e come fedeli, il coraggio di soffiare via la cenere.

Credo serva far posto ai giovani, dare spazio alla loro iniziativa e al loro protagonismo, e lasciarci ringiovanire da loro. Dobbiamo entrare in un dialogo vero con loro, in grado di generare una Chiesa capace di camminare con il loro passo e con il ritmo del tempo presente. I giovani desiderano e cercano una fede personale, non imposta o consegnata da altri: sono alla ricerca di ragioni convincenti per credere, non si accontentano di risposte preconfezionate, perché altrimenti finiscono per lasciar perdere, e hanno bisogno di un linguaggio non teorico e astratto, ma che abbia radici nella loro vita. Quando un giovane percepisce la comunità come casa propria (e non si sente solo ospite), perché lì vive relazioni e incontri significativi, allora la brace viene alimentata. Su questo credo sia importante, come preti, investire nel presente e nel prossimo futuro.

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