La congregazione con il vescovo Marco e il delegato per la vita consacrata mons. Sarzi Sartori (Capitolo generale 2023)
Don Angelo Bertasi, parroco a Volta Mantovana dal 1888 al 1907, accompagnò alcune giovani come direttore spirituale. Da loro ebbe inizio la famiglia religiosa delle “Oblate dei Poveri di Maria SS. Immacolata”.
Le prime suore furono coinvolte nelle opere di carità che don Bertasi promosse per la gente del paese: l’ospedale-ricovero, l’oratorio femminile (che includeva la scuola di lavoro e di alfabetizzazione) in cui erano accolte anche alcune orfane, l’insegnamento della dottrina cristiana in parrocchia, la cucina economica per i poveri, la società di mutuo soccorso.
Le suore Oblate dei Poveri riconoscono il proprio carisma nella “Incarnazione redentrice di Gesù e la Sua preferenza per i piccoli e i poveri” e si sentono chiamate “all’apostolato della fede e della carità a gloria di Dio e per il bene dei fratelli”.
Nel mese di settembre 2023 è stato celebrato il diciassettesimo Capitolo Generale Ordinario dell’Istituto di diritto diocesano. Il Capitolo, formato da tutte le suore, è la suprema autorità dell’Istituto, e per questo ogni sei anni vota la Superiora generale e il Consiglio, con il mandato di attuare le deliberazioni espresse dal Capitolo stesso.
Suor Lia Bevilacqua (ultima a sinistra nella foto) è stata eletta Superiora generale.
Decenni drammatici
Negli anni in cui il giovane Bertasi andava prendendo progressiva coscienza di sé e del mondo in cui viveva, il territorio mantovano, ancora soggetto alla dominazione austriaca, fu l’epicentro del risorgimento nazionale. Le tre guerre d’indipendenza furono principalmente combattute qui – basti ricordare le battaglie di Curtatone e Montanara, Goito, Solferino e San Martino, Custoza – con il loro carico di violenza e di lutti, e con i loro corollari non meno drammatici.
Qualche esempio. Nel 1848 la soldataglia violò la cripta della basilica di Sant’Andrea e trafugò i sacri vasi del Preziosissimo Sangue, disperdendo la reliquia che per oltre mille anni aveva contrappuntato la storia della città. Il parroco di Castiglione Mantovano, don Nicola Bertolani, fu fucilato all’istante per aver protestato contro le truppe straniere che avevano ucciso un suo parrocchiano. In città ben cinque carceri rigurgitavano di prigionieri politici, che poi, tra gli altri quelli noti come martiri di Belfiore, spesso finivano giustiziati. E dal 1859 al 1866 la provincia fu divisa in due dal confine politico tra Italia e Austria, con conseguenti lacerazioni dei normali rapporti economici e sociali.
Quando poi l’intero territorio mantovano fu aggregato al regno d’Italia, tali rapporti si aggravarono. Non solo i danni provocati dalle guerre non furono riparati, ma la provincia rimase esclusa dai flussi vitali della nazione, precipitando in una depressione che provocò uno stato endemico di povertà, manifestato in particolare da due fenomeni: nell’alto mantovano la diffusione della pellagra (la terribile malattia causata da denutrizione, che poteva portare alla demenza), e nell’Oltrepò le lotte di ispirazione socialista, che opposero i contadini ai proprietari terrieri.
Per queste ragioni Mantova conobbe, nel secondo Ottocento, anche una profonda crisi culturale; la città, già gloriosa per i suoi artisti e letterati, per i suoi monumenti e le sue opere d’arte; la città già capitale di rango europeo decadde al livello di una qualunque borgata di provincia.
Non migliore si presentava infine la situazione religiosa, su cui incise pesantemente quella politico-ideologica e socio-economica. Nel clero subentrarono contrasti tra i sostenitori delle diverse posizioni; il seminario, considerato dal governo fucina di ribelli, fu ripetutamente chiuso; un certo numero di preti lasciò lo stato sacerdotale; altri furono allontanati o giustiziati (ben tre solo sulle forche di Belfiore); nel popolo faceva breccia un’insistente predicazione protestante, e mentre in genere l’alto mantovano viveva una religiosità alquanto superficiale, di tradizione, nel basso era diffuso il distacco dalla Chiesa, spesso permeato di ostilità verso il clero, accusato di connivenza con i “padroni”.
Non mancarono figure luminose, come il vescovo Giovanni Corti (1847-1868) e monsignor Luigi Martini, amatissimo come “confortatore” dei martiri di Belfiore, fondatore dell’orfanotrofio femminile e instancabile nella carità. Ma lo zelo forse troppo intransigente del successore di Corti, il vescovo Pietro Rota (1871-1879), causò un acuirsi dei contrasti sia tra il clero sia con il governo, che arrivò a incarcerarlo. Egli allora si vide forzato a dimettersi, così come, non reggendo all’ostilità diffusa, si dimise il vescovo venuto dopo di lui, Giovanni Maria Berengo (1879-1884).
La situazione ecclesiale prese a migliorare soltanto a fine secolo, con il vescovo Giuseppe Sarto, poi papa e santo con il nome di Pio X. Egli resse la diocesi dal 1884 sino, di fatto, al 1895, quando gli succedette Paolo Carlo Origo.
Intanto, a Fontane...
Nell’arco della sua vita, trascorsa in varie località della diocesi, Angelo Bertasi ebbe modo di fare esperienza di tutte le situazioni accennate. Egli fu il primo dei tre figli di Giovanni Bertasi e Maria Domenica Tamburini, tessitore lui, filatrice lei, e in più coltivatori di un piccolo appezzamento di terreno.
Con loro il primogenito lavorò sino ai 25 anni; ma, alla luce di quanto poi accadde, senza lasciarsi assorbire né dalla fatica né dagli interessi comuni ai suoi coetanei. Egli doveva essere dotato di un’intelligenza vivace, che lo manteneva attento a quanto gli accadeva intorno, e di una robusta volontà, che gli faceva superare gli ostacoli frapposti al realizzarsi dei suoi propositi.
Era nato a Fontane, una frazioncina di Castiglione delle Stiviere, il 2 aprile 1847, cioè l’anno stesso dell’arrivo a Mantova del vescovo Corti. Per quanto si sa non ebbe mai modo di incontrarlo, e certo era troppo piccolo per rendersi conto degli esordi del risorgimento; ma si può immaginare non gli sia sfuggito quanto accadde proprio intorno a lui nel 1859: a dodici anni si hanno occhi per vedere, capire, ricordare.
Fontane è sulla strada che da Castiglione porta a Solferino, distante solo quattro chilometri: si trovò dunque proprio nel mezzo delle operazioni belliche passate alla storia col nome di battaglia di Solferino, in cui si scontrarono gli eserciti francese e austriaco, mentre poco più a nord, intorno a San Martino, a fronteggiare quest’ultimo erano gli italiani. Fu una battaglia cruenta come poche: migliaia e migliaia i morti, ancor più numerosi i feriti, che dai campi degli scontri furono convogliati tutti a Castiglione, il paese più importante della zona, dove però non era stata predisposta alcuna assistenza. I feriti furono dapprima portati dentro il duomo, e quando la pur ampia chiesa ben presto si rivelò insufficiente a contenerli tutti, furono deposti per le strade, abbandonati a sé stessi.
Tutti quei corpi straziati, che tra i lamenti invano invocavano almeno un sorso d’acqua, mossero a pietà le donne di Castiglione: animate da don Lorenzo Barziza, per giorni e giorni esse fecero a gara nel soccorrere come potevano quegli sventurati, e senza badare se fossero italiani, o francesi, o austriaci; il motto che circolava era “Tutti fratelli!”. Quello straordinario spettacolo di umana solidarietà colpì un casuale osservatore, il ginevrino Henri Dunant, il quale più tardi ne prese spunto per fondare la Croce Rossa Internazionale. Ma è verosimile che abbia impressionato anche il piccolo Bertasi, offrendogli un esempio di come si possa concretizzare la carità cristiana. Forse è da individuare anche in quel ricordo della sua prima adolescenza uno degli stimoli che lo portarono poi alla sua multiforme sollecitudine verso i malati, i poveri e quanti altri incontrava in difficoltà.
Il proposito di dedicarsi tutto al prossimo per amor di Dio prese nella sua mente la forma della vita sacerdotale. Non sappiamo quando e come gli si sia delineata la vocazione; come spesso accade, dev’essersi trattato di un cammino graduale, compiuto sotto la guida e per l’esempio dei sacerdoti della sua parrocchia. Un cammino, in ogni caso, non comune: allora i futuri preti entravano in seminario ancora fanciulli, seguendo un regolare e impegnativo corso di studi; lui invece viveva in famiglia, lavorando insieme con i genitori. Ma la meta doveva averla chiara, se intanto, al di fuori di ogni costume, studiava.
È possibile che ad avviarlo e seguirlo nei primi passi degli studi privati sia stato l’allora parroco di Castiglione, don Andrea Coppiardi, che lasciò la parrocchia nel 1861 e successivamente Angelo ritrovò come professore in seminario; è possibile che altri sacerdoti del paese l’abbiano accompagnato in seguito. È possibile: sui suoi anni giovanili non si conoscono notizie precise. Di certo si sa che egli, fatto decisamente inusuale ai tempi, entrò in seminario a 25 anni, e appena tre anni dopo, il 27 marzo 1875, ricevette dal vescovo Rota l’ordinazione sacerdotale.
Con ogni evidenza fu un alunno non comune, come risulta dai registri: intelligenza, tenacia e ottima condotta, insieme con una notevole preparazione precedente, lo portarono il primo anno a ricuperarne due, e nei successivi a dare così buona prova di sé da essere ammesso all’ordine sacro pur se una malattia gli impedì di sostenere gli ultimi esami.
Da un capo all’altro della diocesi
Divenuto sacerdote a Pasqua (quel 27 marzo era il sabato santo), per il resto dell’anno scolastico don Angelo rimase in seminario come “prefetto”, cioè assistente degli alunni più giovani. Un compito durato appena tre mesi; il primo luglio cominciò il suo percorso pastorale nelle parrocchie, che lo portò da un capo all’altro della diocesi. Negli anni drammatici di cui si è detto, egli ebbe modo così di conoscere direttamente, da un lato, le diverse posizioni dei confratelli in ordine alle difficoltà della diocesi stessa e ai problemi politico-culturali del momento, e dall’altro i diversi atteggiamenti dei laici nei confronti della religione e specificamente della Chiesa.
Il primo incarico fu quello di curato a San Cataldo, frazione di Borgoforte allora più popolosa di oggi, tanto da costituire parrocchia autonoma con appunto due sacerdoti. Da questo paese della campagna tra la città e il Po, don Angelo fu trasferito dopo neppure due anni, con gran rincrescimento del parroco, che chiese al vescovo di lasciargli come collaboratore quel “sacerdote buono e zelante”.
Ma proprio le doti di quel giovane prete devono aver indotto il vescovo a ritenerlo prezioso in una delle parrocchie più difficili, Gonzaga. L’Oltrepò, come si è accennato, si caratterizzava per una diffusa disaffezione alla Chiesa, sfociante spesso in aperta ostilità, anche da parte delle autorità civili; per di più, l’adiacente parrocchia di Palidano costituiva un “caso” doloroso per la diocesi: come già in due altre parrocchie, anche qui i fedeli avevano rifiutato il parroco mandato dal vescovo e se ne erano scelto uno di loro gradimento, ponendosi così in una posizione scismatica.
Dell’opera di don Angelo a Gonzaga risulta in particolare che egli sostenne i confratelli della zona con le proprie conoscenze dottrinali: evidentemente i suoi studi in seminario, oltre che più recenti e aggiornati, dovevano essere apprezzati per la loro profondità.
Ma anche qui egli rimase poco; dopo altri due anni e mezzo fu trasferito, sempre come curato, a Suzzara, dove risiedette quasi sei anni.
Lui stesso aveva scritto al nuovo vescovo, monsignor Berengo, di non cambiargli sede tanto presto, per dargli modo di conoscere bene i parrocchiani e così regolare meglio il suo operato in loro favore. Le sue sollecitudini pastorali emergono anche dalle considerazioni relative a un eventuale suo incarico come parroco: egli non ambiva, scrisse, a una parrocchia “comoda”, che assicurasse benessere economico e scarso impegno, ma anzi ad una di quelle dove altri avessero difficoltà a trasferirsi.
Pensando al suo operato nella parrocchia di cui successivamente assunse la piena responsabilità, degli anni suzzaresi prende rilievo il suo incarico di confessore della locale comunità di suore. Va ricordato che all’epoca, ancora in conseguenza della soppressione di tutti i monasteri e conventi compiuta un secolo prima dai governi austriaco e francese, in diocesi era assai scarsa la presenza di religiose, sicché don Angelo non aveva esperienza diretta di questa forma così rilevante della vita cristiana. Nel suo paese natale, Castiglione, erano sopravvissute alla soppressione le Vergini di Gesù, le quali però, secondo la natura del loro Istituto, conducevano una vita piuttosto ritirata; fu dunque una sorpresa per lui vedere quelle giunte a Suzzara, appartenenti alla congregazione delle Figlie della Carità, impegnate in ogni opera di bene: primariamente presso l’ospedale, ma anche nell’aiuto ai poveri e nella collaborazione alle diverse attività parrocchiali. Si rese conto di quanto importanti potessero risultare, ai fini pastorali, persone interamente dedite all’amore del prossimo, e quando divenne parroco se ne ricordò.
Prima però trascorse altri tre anni come curato nella parrocchia di Castelbelforte. Di quel periodo si conoscono alcuni suoi scritti, che attestano da un lato la profondità della sua fede, e dall’altro la sua capacità di proporla in modo accattivante e accessibile a chiunque. Invitò ad esempio, commentando l’episodio evangelico delle nozze di Cana, ad accogliere le semplici ma fondamentali parole di Maria, “Fate quello che Gesù vi dirà”. E parlando del Natale scrisse: “E’ alla scuola di Gesù bambino, nato povero, che si impara a giudicare le cose del mondo”. Quando poi si è provati dalla paura e dalle difficoltà della vita, ci si ricordi dell’episodio di Gesù addormentato sulla barca mentre infuriava la tempesta, che egli poi placò con una sola parola: “Non importa che Gesù dorma: siete con Gesù, e questo basta”.
Don Angelo parroco
Nell’autunno 1888 il vescovo Sarto, il futuro San Pio X, affidò a don Angelo la parrocchia di Volta Mantovana.
Volta era un paese allora tra i più popolosi del mantovano, 3500 abitanti, ricco di storia – come tuttora attestano alcuni suoi edifici monumentali – e rilevante anche nelle vicende religiose della diocesi, per essere la patria della Beata Paola Montaldi, i cui resti mortali, dopo la soppressione dei monasteri, erano stati traslati da Mantova alla chiesa parrocchiale del paese natio. Il quale viveva allora una fase assai difficile: l’economia era basata sull’agricoltura, che però stentava a dare frutti, in quell’ambiente collinare allora privo di irrigazione; anche per questo la maggioranza della popolazione viveva in condizioni di povertà e talora di miseria, manifesta in particolare nella diffusione della pellagra.
Tale situazione però non dava origine a sommovimenti sociali; delle lotte dell’Oltrepò qui giungeva soltanto qualche pallida eco, che non alterava lo stato d’animo prevalente, esprimibile nel termine “rassegnazione”. Sul piano religioso, i voltesi non differivano dagli altri abitanti dell’alto mantovano: rispettosi della Chiesa, vivevano una fede tanto tradizionale quanto superficiale.
Don Angelo giunse a Volta quarantunenne e vi rimase per quasi vent’anni, sino alla morte. Forte delle esperienze compiute in altre parrocchie, e con l’umiltà ma anche la decisione di cui aveva sempre dato prova, valutata la situazione egli si mise subito all’opera, nelle due direzioni che scaturivano dalla sua comprensione del ministero sacerdotale: da un lato la formazione delle coscienze, per condurre i suoi parrocchiani ad una fede più matura e più consapevolmente vissuta, e dall’altro l’impegno della carità, volto ad alleviare quanto possibile le difficoltà del paese in genere e dei più sfortunati in particolare.
Maestro nella fede
La formazione delle coscienze egli la attuava principalmente in due ambiti, il sacramento della confessione e la parola pubblica, attraverso la predicazione e gli scritti. Se il primo dei due ambiti è ovviamente inconoscibile (se non indirettamente, attraverso i frutti che ne sono derivati), il secondo può essere ampiamente ricostruito.
Don Angelo aveva la penna facile, e di lui resta una copiosa messe di scritti: numerose omelie per le celebrazioni festive e per altre ricorrenze liturgiche, sermoni per circostanze particolari, un catechismo per i ragazzi che si preparavano alla confessione e alla prima comunione, un’esposizione “popolare” del Credo, lettere ai suoi vescovi, le Costituzioni e istruzioni varie per la famiglia religiosa da lui istituita (di cui si dirà), articoli per i giornali non solo mantovani. A conoscere il suo pensiero e il suo operato soccorrono inoltre gli scritti su di lui: le lettere dei vescovi e dei confratelli, i resoconti delle visite pastorali, le testimonianze di persone che gli sono state vicine.
Da così numerosi documenti emerge la figura di un sacerdote dedito senza risparmio alla propria missione, in piena e, si può dire, amorosa sintonia con la Chiesa, acuto osservatore dei tempi in cui viveva e tutto proteso a calarvi il seme fecondo del Vangelo. Sua primaria preoccupazione fu quella di risvegliare le coscienze dei parrocchiani, adagiati in una religiosità esteriore. Scrisse ad esempio: questa “è religione posticcia, che somiglia alle vesti che si indossano. Le vesti si mettono in certe circostanze e poi si cambiano. Così anche la religione di tanti cristiani: si mettono in dosso la religione per andare a far comparsa da cristiani alla messa, in chiesa, alla Pasqua, nella processione, poi la tolgono, per non essere obbligati a osservare i comandamenti: di nome dicono di seguire la legge di Cristo”.
Di qui l’invito a riflettere, a cercare di capire l’opera di Dio, per corrispondervi con intima convinzione. Dio manifesta la sua grandezza e la sua potenza nella creazione, che mette a disposizione dell’uomo come segno del suo amore per lui: un amore manifesto poi ancora più grande nell’ordine spirituale, con l’offerta agli uomini della vita eterna, con il perdono dei loro peccati.
Dio si dimostra dunque padre; anzi...
Durante il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, suscitò commozione quella che apparve una audace novità: egli affermò che Dio è sommamente premuroso e affettuoso verso gli uomini, suoi figli; Dio è Padre, anzi, disse, è Madre. Ebbene, la stessa espressione si riscontra già negli scritti di don Bertasi: “Dio è il pastore, Dio è una madre che ama gli uomini come suoi figli”. Se si volesse riassumere l’insegnamento del parroco di Volta Mantovana, occorrerebbe partire proprio dall’amore sconfinato di Dio per l’uomo, dimostrato in tanti modi e sommamente nell’aver dato agli uomini il suo stesso Figlio. Un amore che attende risposta: di qui il richiamo a una più puntuale osservanza della Sua legge, sorretti dai mezzi che Egli stesso mette a disposizione, i sacramenti, da frequentare assiduamente con intima partecipazione.
Da essi in particolare si trae la forza di vivere da autentici cristiani, nell’amore attivo e premuroso verso tutti i fratelli.
Padre dei poveri
Su questo stile di vita attento a dare concretezza all’amore, don Angelo poteva ben insistere con i suoi parrocchiani perché lui per primo ne dava l’esempio. Egli viveva con estrema sobrietà; anzi, si può senz’altro dire, da povero: i testimoni dicono quanto fosse parca la sua mensa, e portava la veste talare sino a quando era lisa, consunta al punto che il nero cominciava a diventare verdognolo. Sulle proprie necessità risparmiava sino all’osso, per avere il più possibile da destinare ai bisognosi.
In loro favore poi sollecitava il concorso di chi poteva, privati e pubbliche autorità, per sostenere le sue tante iniziative, che stupiscono per numero e varietà e ancor oggi trovano ben pochi riscontri nell’attività di una singola persona. Il suo senso pratico,
l’esperienza maturata e in particolare l’esempio delle Figlie della Carità conosciute a Suzzara gli fecero comprendere che difficilmente le istituzioni benefiche si reggono senza l’apporto “a tempo pieno” di persone mosse da spirito di carità: di qui la primaria preoccupazione di don Angelo, costituire un gruppo di giovani donne, votate interamente all’amore del prossimo per amore di Dio. Sono quelle che furono dapprima chiamate Serve dei Poveri, e in seguito furono le prime suore della famiglia religiosa di cui si dirà.
Guardando alla sua parrocchia in tutte le sue componenti, la prima necessità cui porre rimedio gli parve quella dei malati gravi, specie cronici, e degli anziani in difficoltà per mancanza di adeguata assistenza.
Per loro, in collaborazione con il Comune di Volta, nel 1894 il parroco realizzò la Casa di ricovero- ospedale, affidata appunto alle giovani volontarie, che si prestavano anche fuori dell’ospedale, per un’Assistenza domiciliare a chi, per le più varie ragioni, pur bisognoso non poteva essere ricoverato. Dall’anno seguente esse assunsero poi la gestione della già esistente cucina economica invernale per i poveri.
Nel 1897, la creatività di don Angelo diede vita a due iniziative sociali ispirate a criteri di solidarietà, volte a tradurre in forme adeguate ai tempi la fondamentale regola di vita del cristiano, la carità. La prima fu la Cassa rurale cattolica, che riuniva i piccoli agricoltori in una sorta di banca che assicurasse anche a loro, e non solo ai grandi proprietari terrieri, i finanziamenti necessari a sviluppare la loro attività. La seconda fu la Società cattolica di mutuo soccorso femminile, intitolata a Santa Elisabetta (la santa regina d’Ungheria, rimasta celebre per le sue opere di bene); scopo, come recita lo statuto, “lo scambievole aiuto delle socie per il loro miglioramento religioso, morale, economico e civile”. Se la Cassa rurale si ispirava a qualche precedente in altri paesi, la seconda istituzione appare un’audace novità; sarebbero passati parecchi decenni, prima che la promozione della condizione femminile si ponesse con chiarezza tra gli obiettivi di un mondo migliore.
I malati e gli anziani, gli uomini e le donne: dopo di loro, l’attenzione del parroco si volse alla gioventù, specie femminile, così spesso carente in fatto di istruzione. Acquistata una casa apposita, egli affidò alle “buone samaritane” una Scuola di lavoro e studio, dove alle fanciulle si insegnava a leggere scrivere e far di conto, ma anche come svolgere i lavori domestici e come comportarsi nella società. Alla scuola si affiancarono l’Oratorio festivo e anche l’accoglienza di alcune orfanelle.
Le oblate dei poveri
Una serie di imprese, quelle del parroco Bertasi, davvero provvidenziali per l’abitato di Volta tra Otto e Novecento; per numero e qualità in rapporto alla situazione, esse inducono a dire che il paese conobbe allora un Angelo di nome e di fatto. Ma di tutte, la sua impresa più significativa fu quella cui si è soltanto accennato, l’istituzione di una nuova famiglia religiosa.
La più significativa: perché senza di essa non avrebbe potuto vivere la maggioranza delle altre; perché, mentre le altre si sono trasformate o sono state superate dall’evolversi dei tempi, questa dura tuttora; perché questa ha esteso il suo raggio d’azione ben al di là della parrocchia dov’è nata, connotando da allora la storia della diocesi mantovana.
La nuova congregazione nacque, com’è ovvio, per gradi, anche in rapporto a una serie di suggestioni e incontri dietro i quali non si può non vedere un disegno della divina Provvidenza. Si è già ricordato quale ammirazione avesse suscitato in don Angelo quella che per lui era una novità, il multiforme impegno delle Figlie della Carità conosciute a Suzzara. A loro si possono aggiungere l’esempio e i consigli di Teresa Fardella de’ Blasi, che a Mantova andava costituendo anch’ella una nuova famiglia religiosa, le Povere Figlie di Maria Santissima Incoronata.
Quando conobbe Itala Vittoria Ganzerla, una vedova di profondi sentimenti cristiani, che aveva assistito il marito nella sua lunga malattia portandolo ad abbracciare la fede, don Angelo intuì che poteva essere lei, trasferitasi dalla città a Volta per assistere un ammalato, la persona mandatagli dalla Provvidenza per avviare la sua fondazione. A lei si unirono due giovani, poi altre quattro, e a quelle sette “buone samaritane” don Angelo affidò progressivamente l’ospedale-ricovero, l’assistenza domiciliare, la cucina per i poveri, la scuola, l’oratorio e l’accoglienza delle orfanelle; nel contempo le andava formando sul piano spirituale, nei fondamentali orientamenti che guidano la vita delle suore: la preghiera, l’inesausta carità verso i bisognosi, i tre voti di povertà, castità e obbedienza.
Formalmente suore lo divennero il giorno di Natale dell’anno 1900, quando, con l’approvazione del vescovo, emisero la loro professione religiosa. Vescovo di Mantova era allora Paolo Carlo Origo, che era stato scelto nella congregazione milanese denominata degli Oblati dei santi Ambrogio e Carlo. Questi precedenti spiegano il nome scelto per la congregazione di don Bertasi: Oblate dei poveri di Maria Santissima Immacolata. Di tale nome si intuisce la triplice origine: il riferimento alla Santa Vergine rimanda alla congregazione di Teresa Fardella; l’Oblate, a quella donde proveniva il vescovo; nella cura di specificare dei poveri, la sottolineatura del fondatore, che dei poveri aveva fatto i destinatari privilegiati della sua azione. Ma c’è di più. Oblato significa “offerto”: è un termine desueto, che evoca però significati profondi. Oblati si dicevano nel Medio Evo coloro che spontaneamente si offrivano per tutta la vita al servizio di un monastero; oblate si chiamavano un tempo le offerte raccolte in chiesa durante la messa; soprattutto, “oblazione pura e santa” è quella fondamentale della messa, l’offerta al Padre del sacrificio redentore di Gesù. Considerando ciò, si può meglio comprendere il senso del nome scelto da don Angelo per le sue suore: a imitazione di Gesù, che nell’incarnazione si fa uomo per la salvezza dell’umanità, esse si offrono totalmente per il bene di coloro che Gesù ama, specie i suoi prediletti, cioè i piccoli e i poveri, e lo fanno confidando nel materno aiuto della Santa Vergine.
Comprensibilmente, don Angelo seguì la vita delle Oblate con tutta la saggezza e la carità del suo cuore sacerdotale, formandole con una serie di meditazioni di cui si tramandano come perle alcuni concetti fondamentali. Ad esempio, operare nel silenzio, perché “il rumore non fa il bene”; “la carità vale più delle penitenze, se queste vi impedissero di esercitare bene la carità”; “fate tutto per Gesù, non molte cose ma molto bene”; le suore sono instancabilmente operose come le api, “per donare agli altri il dolce frutto del loro amore e del loro lavoro”; “dovete essere piene di luce, ardere di zelo per tutte le anime, e così illuminare quanti vi circondano”.
Non preoccupatevi, ripeteva poi, se siete poche e con tante difficoltà: quest’opera è del Signore, provvederà lui a condurla avanti. Provvide, infatti. Don Angelo passò alla patria celeste a soli sessant’anni, il 18 novembre 1907, unanimemente compianto. “A Volta è un vero plebiscito di dolore”, scrisse "Il Cittadino di Mantova": “un popolo intero dà solenne attestazione della stima illimitata, dell’affetto intenso che portava al suo pastore; egli ha vissuto per il suo popolo e l’aveva amato non a parole ma con opere costantemente vantaggiose e benefiche, privando se stesso”.
Eloquente segno della fecondità del suo operato che, se alla sua morte le sue suore erano ancora uno sparuto drappello, ben presto crebbero di numero, sicché se a Volta rimase la casa-madre (con la cappella dove ora le spoglie del fondatore riposano), esse furono in grado di aprire altre case in vari centri della diocesi e anche oltre, prestando opera preziosa specie negli asili d’infanzia e nelle case di riposo, nonché collaborando assiduamente all’attività delle parrocchie.
Negli anni Sessanta del Novecento ne aprirono una anche a Mantova, coraggiosamente riscattando e restaurando uno dei siti storici più rilevanti della città, la chiesa e il relativo convento di Santa Maria del Gradaro, gravemente degradati dopo la soppressione settecentesca degli ordini religiosi. Qui hanno trasferito la loro casa generalizia; qui, come nelle altre loro comunità, continuano nell’umiltà del quotidiano a far vivere lo spirito consegnato loro da quell’autentico “Angelo” che fu il loro fondatore.