Nell’Antico Testamento l’anno giubilare manifesta l’esigenza di disporre periodicamente di un tempo liberato dagli schemi comuni dell’agire ordinario, un “anno di grazia” in cui ristabilire l’armonia e la giustizia nel popolo, far riposare la terra, condonare i debiti e ridare libertà agli schiavi, quali segni tangibili del ripristino del disegno originario di Dio sulla creazione e sull’umanità.
Se da un lato molti elementi ci fanno sospettare che l’ideale giubilare abbia faticato a trovare concreta attuazione nella storia d’Israele, dall’altro i profeti non cessano di tenere desta nel popolo la speranza nella venuta di un messia in grado di realizzare tale promessa di liberazione.
Per noi cristiani, infatti, il vero giubileo si compie in Gesù di Nazareth. In lui si realizza in pienezza l’anno di grazia del Signore (cfr. Lc 4,18-19): in «Cristo Gesù nostra speranza» (1 Tm 1,1) diveniamo pellegrini verso la meta del Regno di Dio, che è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17).
Il momento storico che stiamo vivendo appare caratterizzato da un clima di disincantata preoccupazione, legato al susseguirsi delle pesanti crisi emerse in rapida e concatenata successione – politiche, sociali, economiche, belliche, sanitarie, energetiche e ambientali – che affliggono da decenni l’intero pianeta. Un susseguirsi di fenomeni che rischia di spegnere la positività del vivere, raccorciando l’orizzonte e moltiplicando l’angoscia per un domani incerto e privo di promesse per il futuro: un rarefarsi della speranza che, almeno nel nostro mondo occidentale, sembra assumere i connotati di una crisi della vita.
In tale contesto, il serbatoio della speranza sembra progressivamente svuotarsi anche presso i credenti. Gli stessi praticanti lamentano stanchezza e noia, nelle celebrazioni come nelle azioni pastorali, che vengono avvertite ripetitive, ancorate alla nostalgia del passato e fuori sincrono rispetto alle sensibilità contemporanee. Già Benedetto XVI rilevava il problema di un cristianesimo affaticato per eccessivo razionalismo, moralismo e sociologismo, di una fede ridotta a concetto religioso o a regola morale che non scalda e non muove i cuori: «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile» (SS 3).
In tale stanchezza – personale e comunitaria – si intravvede una perdita di freschezza evangelica e di gioia messianica, concomitante allo smarrimento dell’orizzonte escatologico, all’allentamento della speranza del ritorno del Signore e a una debole consapevolezza della morte come “nascita al cielo”. L’enfasi riservata all’urgenza dell’azione trasformativa sulla storia ha prodotto un appiattimento sul qui ed ora, sganciandoci dalla prospettiva dell’eternità e contribuendo a diluire la consapevolezza che, in quanto cristiani battezzati nella Pasqua di Cristo «la nostra cittadinanza è nei cieli» (Fil 3,20).
Nella lettera ai Tessalonicesi, Paolo ci ammonisce a non cadere nell’afflizione, a non essere «tristi come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4,13), spronandoci a recuperare la prospettiva propria di una fiduciosa attesa del Regno, da non confondere con un vago ottimismo o un cieco affidamento al mito del progresso umano. Nella fede del Cristo risorto siamo chiamati «ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta [...], come a un’àncora sicura e salda per la nostra vita» (Eb 6,18-19).
L’attesa del compimento rende positivamente vivibile anche il nostro presente: «Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future [...]. È attesa delle cose future a partire da un presente già donato. È attesa, alla presenza di Cristo, col Cristo presente, del completarsi del suo Corpo, in vista della sua venuta definitiva» (SS 7-9). L’esperienza sacramentale – soprattutto quella eucaristica – costituisce l’ambito privilegiato nel quale l’eternità e il tempo vengono a combaciare, donandoci di pregustare quella comunione con la Santa Trinità e tra di noi che è anticipazione e caparra del Regno dei cieli.
In questa prospettiva plasmata e rinnovata dalla speranza, anche l’insoddisfazione, la crisi, il senso di vuoto e persino i peggiori inferi esistenziali possono trasformarsi in sane inquietudini e in aperture all’accoglienza dell’annuncio evangelico: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti» (EG 164).
Il Giubileo della Speranza sarà una preziosa e feconda occasione per una testimonianza più esplicita e trasversale dell’orizzonte del Regno quale termine ultimo del desiderio umano di felicità, affinché la vita terrena non sia avvelenata dall’angoscia di una fine assurda e insensata, ma venga sostenuta dalla promessa dell’eternità.
Confido che questo anno giubilare non trascorra come una mera serie di appuntamenti celebrativi ma, grazie ai momenti di grazia che condivideremo, contribuisca a coltivare un clima spirituale e comunitario capace di rianimare di speranza anche i luoghi e i ritmi ordinari della vita cristiana.
Nella bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, papa Francesco ricentra la speranza nel «trittico delle virtù teologali, che esprimono l’essenza della vita cristiana» (SnC 18). Più che dimensioni distinte, fede, speranza e carità rappresentano tre punti di vista da cui considerare la realtà unitaria della vita cristiana, edificata dall’incontro con il Signore. La speranza, infatti, «nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce» (SnC 3).
Significativamente, nella cripta della basilica di Sant’Andrea, sull’altare che custodisce i Sacri Vasi, troviamo due statue in marmo di Carrara, opera della scuola di Antonio Canova, che rappresentano la Fede e la Speranza. Esse sono poste ai lati dell’urna del Preziosissimo Sangue, che occupa il posto centrale, quale simbolo per eccellenza della carità. La spiritualità del Preziosissimo Sangue si innerva sul donarsi di Cristo portato fino al sacrificio della vita, per testimoniare quella speranza che non delude (cfr. Rm 5,5), in quanto «né morte né vita [...], né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù» (Rm 8,38-39).
Come Chiesa mantovana abbiamo raccolto nel tema giubilare della speranza – in special modo nel suo nesso teologale con la carità – l’invito a ritornare alla contemplazione del costato aperto di Gesù, dal quale è effuso il sangue, sintesi dei misteri dell’incarnazione, della redenzione e della trasfigurazione finale del mondo. La città e la diocesi di Mantova hanno il privilegio di custodire e venerare da oltre milleduecento anni il Preziosissimo Sangue di Cristo, una delle reliquie più importanti della cristianità, la cui unicità consiste nella commistione del terriccio del Calvario con il sangue sgorgato dalla trafittura. Il soldato che «con una lancia gli colpì il fianco» (Gv 19,34) – che la tradizione identifica con Longino – lo avrebbe portato con sé a Mantova e, quindi, nascosto in un luogo appena fuori dall’abitato, dove fu sepolto lo stesso milite che testimoniò col martirio la propria conversione.
Un particolare significativo che ci è stato tramandato attesta che Longino fosse cieco (o, quantomeno, avesse una patologia oculare) e, nel momento in cui una goccia del sangue di Gesù cadde sui suoi occhi, egli recuperò appieno la vista. Ebbene, quel contatto con il sangue di Cristo è stata la sua “indulgenza”, che gli ha aperto gli occhi della fede e ha trasformato il nemico nel discepolo che custodisce la reliquia del suo Redentore e ne diventa il testimone.
Il sangue effuso dal costato trafitto ha bagnato la terra del Golgota, il colle del cranio. Nell’iconografia cristiana, sotto la croce viene sempre rappresentato un teschio – quello di Adamo – per esprimere la convinzione che Gesù muore nel punto in cui il primo uomo, peccando, si è separato da Dio, consumando la propria morte spirituale. Il sangue del nuovo Adamo versato sul terreno roccioso del Golgota irrora i resti del primo uomo sepolti nella fredda terra e sigilla la nuova alleanza, che purifica, perdona e fa risorgere da morte. Il Calvario, luogo di morte e di dolore in cui si conclude il percorso dell’uomo senza speranza, assorbe il sangue di Cristo e diventa il luogo in cui ricomincia la speranza.
Come vero uomo e capostipite della nuova umanità, Cristo appartiene a tutta l’umanità.
La sua ascensione nella gloria del Padre non costituisce un’interruzione del suo legame con il genere umano. Anzi, Gesù è innalzato alla destra del Padre, al quale appartiene in modo definitivo e glorioso, non solo secondo la sua divinità, ma anche secondo la sua umanità. La sua presenza in cielo, presso il Padre, non impedisce la sua presenza in mezzo a noi, «tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Una presenza che, in virtù della sua promessa, si manifesta in molteplici forme.
Egli è presente anzitutto mediante lo Spirito effuso sulla croce come frutto del sacrificio d’amore: Spirito della festa dei risorti e della consolazione, Spirito che fa memoria di Gesù e ci sospinge verso il Regno definitivo.
Inoltre, nell’interpretazione patristica, l’acqua e il sangue che sgorgano dal costato di Cristo generano la Chiesa, Sposa dell’Agnello, con i mistici doni di grazia dell’acqua battesimale e del Sangue eucaristico. Nel sacramento dell’Eucaristia Gesù rimane presente nel mondo grazie al segno memoriale del suo Corpo donato e del suo Sangue versato, che ci fanno partecipare al suo sacrificio pasquale ed entrare in comunione con lui. Il luogo per eccellenza della speranza cristiana è, dunque, la liturgia eucaristica: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26).
Il Sangue di Cristo è farmaco di immortalità. Bere al suo calice significa attingere all’amore divino, dissetandosi di speranza. Non a caso, il parallelismo tra Sangue e amore è assai frequente nella spiritualità e nella teologia dei Padri della Chiesa. Ignazio di Antiochia – morto martire all’inizio del II secolo e ritenuto il primo mistico del Sangue di Cristo – identifica il Sangue effuso con la carità e, come unico sostegno nella passione, avrà «il pane di Dio, che è la carne di Gesù Cristo, e per bevanda voglio il suo Sangue, che è l’amore incorruttibile» (Lettera ai Romani 7,1). Mentre la tradizione agostiniana vi associa anche la speranza, in quanto il Sangue di Cristo protegge dalla disperazione i peccatori che faticano a convertirsi: «Non dire: non mi salverò! Hai il Sangue di Cristo! Ogni tua speranza è il Sangue di Cristo!».
Quella eucaristica non costituisce l’unica forma di permanenza del suo sangue versato sul mondo. L’universo intero, infatti, rappresenta il “grande calice” che ha ricevuto il flutto prezioso del sangue e dell’acqua zampillati dal fianco di Gesù, quale segno della santificazione del mondo terrestre e pegno della sua trasfigurazione futura.
Nella morte di Cristo, quindi, l’intera creazione comunica con il suo preziosissimo Sangue. L’idea tradizionale che una goccia di esso sia caduta sul capo di Adamo per redimerlo e un’altra sia caduta sugli occhi di Longino, restituendogli la vista, sta a significare che il sangue e l’acqua versati sul mondo lo hanno trasformato in un “universo cristiano”: da questo momento, seppur in maniera misteriosa e segreta, agiscono dall’interno del mondo le energie santificatrici della Pasqua di Cristo.
Il Signore adempie alla promessa di non lasciarci orfani anzitutto mediante il sacramento dell’Eucaristia, ma anche attraverso quest’altra presenza invisibile del suo santo Sangue, che permane sulla terra e ne santifica le radici profonde, come afferma Ippolito di Roma: «I cieli abbiano il tuo spirito, e il paradiso la tua anima: ma il tuo sangue appartenga alla terra!» (Omelia VI sulla Pasqua). A differenza del Sangue eucaristico che è dato per la comunione, il sangue effuso dal fianco di Cristo dimora nel mondo come il germe della sua misteriosa santità, forza della vita del Figlio di Dio che agisce dall’interno donandogli il potere dell’incorruttibilità, che si manifesterà in pienezza al ritorno del Signore, quando la creazione verrà trasfigurata in «un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21,1).
Nel suo respiro universale, la speranza legata al sangue di Gesù, che permane nella terra come fattore segreto di santificazione, non è riservata ai discepoli, ma si dilata all’intero universo che, in senso metaforico, diviene “il grande reliquiario” che contiene misteriosamente e invisibilmente il santo sangue del Redentore, di cui la nostra reliquia mantovana diviene il segno tangibile.
La cornice biblica che lega la speranza all’amore favorisce una migliore comprensione dell’indulgenza, quale grazia propria del Giubileo. «L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini» (SnC 23).
Paolo scrive ai Romani che Dio dimostra il suo amore verso di noi in quanto, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto affinché fossimo giustificati nel suo sangue (cfr. Rm 5,8-9). Il Padre lo ha stabilito come strumento di espiazione, per mezzo della fede nel suo sangue, per manifestare la sua giustizia nel perdonare il peccato dell’umanità (cfr. Rm 3,25-26). L’indulgenza, quindi, non è anzitutto un’azione sacra ma, come scrisse Paolo VI: «Cristo stesso è la nostra “indulgenza”» (Apostolorum limina, II).
Il tempo giubilare apre i tesori della misericordia e del perdono a tutti coloro che intraprendono cammini di conversione e penitenza nel desiderio di maturare le disposizioni necessarie per ricevere e rendere effettiva l’Indulgenza Giubilare.
Essa ci accompagna nella maturazione di un pentimento autentico, non quale mera pratica esteriore o devozionale, ma come un rinnovato incontro con Cristo, a contatto con il mistero pasquale della nostra salvezza reso presente nei sacramenti e nella venerazione della reliquia del Sangue Prezioso, al cui potere salvifico il pellegrino si affida. Anche gli inizi, benché timidi, di una conversione ancora “imperfetta” costituiscono già una grazia, espressione del dono che il Giubileo rappresenta anche per coloro che non possono o non vogliono ancora celebrare il perdono sacramentale. Questo ci consente di mantenere una visione ampia rispetto alla grazia del perdono, che ha certamente il suo apice sacramentale nell’Eucaristia e nella Riconciliazione, ma si rivela anche in altre esperienze e sotto altre forme.
«Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna» (Rm 6,23). Il giudizio divino sulle nostre azioni storiche – personali e collettive – è salvifico, in quanto ci dona una parola di chiarezza sulle deformazioni dell’umano, che rappresentano forme di perdizione e anticipano quello “stato infernale” di separazione definitiva dall’amore beatificante di Dio, che è la drammatica possibilità per l’uomo di auto-escludersi dal Paradiso.
«E poiché non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio» (SnC 22). Questo è il senso dell’indulgenza, che rimuove i “residui del peccato” che permangono nella nostra umanità debole e attratta dal male. Attingendo al tesoro della Chiesa, cioè ai meriti e all’intercessione dei santi uniti a Cristo, siamo aiutati ad assimilare sempre più profondamente «il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma della morte» (SnC 20).
Anche nella predicazione e nella catechesi siamo quindi chiamati a recuperare franchezza e chiarezza nell’annuncio delle realtà ultime, non solo in occasione delle celebrazioni esequiali, che pur rappresentano una significativa opportunità per annunciare la speranza che supera la morte. In tale orizzonte si colloca anche l’educazione dei fedeli al rapporto cristiano con i defunti, che non sono degli “estinti”, ma dei viventi nella comunione dei santi. Anzi, più vivi di noi, in quanto partecipi di uno stato più compiuto della vita in Cristo.
Il recupero del valore della preghiera di suffragio, in special modo nell’ambito della celebrazione eucaristica, costituisce la premessa necessaria a rendere comprensibile e praticabile l’indulgenza plenaria per i defunti: «Si comprende in tal senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia» (SnC 22).
La grazia giubilare rigenera la speranza ecclesiale anche nel senso di una rinnovata fiducia verso la Chiesa, la sua missione e il suo ministero di mediatrice della comunione con il Signore (cfr. SnC 25).
Al presente, è innegabile che la comunità cristiana si trovi ad attraversare un momento critico su diversi fronti, che ci sollecita a divenire interpreti attenti e realisti dei segni dei tempi, sempre fiduciosi nell’azione salvifica di Dio nella storia. Il calo numerico dei credenti e dei praticanti fa presagire il desolante scenario di chiese scarsamente frequentate e svuotate di presenze giovanili, con un impatto aggravato dalla crisi delle vocazioni al matrimonio cristiano, al ministero ordinato e alla vita consacrata.
I contesti ecclesiali, indeboliti di risorse ma anche impoveriti di testimonianza cristiana, sono spesso disertati per il loro carattere deludente rispetto alle attese di un luogo evangelicamente significativo. Se da una parte le comunità sono chiamate a interrogarsi e a convertirsi rispetto a dinamiche interne conflittuali e divisive, a forme di competizione e di clericalismo, a relazioni anonime e a pigrizie nell’attuare le necessarie conversioni pastorali, d’altra parte rimane valido il richiamo di Dietrich Bonhoeffer a non avere “aspettative esagerate” verso la comunità ecclesiale, ma a nutrire “speranze possibili”.
La Chiesa – a tutti i livelli, da quello locale all’universale – necessita del “riposo attivo” del perdono giubilare. L’esperienza di un tempo in cui ripartire dalla misericordia, facendo tacere le contrapposizioni e tutto ciò che minaccia l’armonia delle relazioni, potrà rinvigorire il cammino ecclesiale modellato sulla comunione sinodale. La conversione giubilare ci offre un esercizio più attento ed efficace nelle relazioni ecclesiali all’insegna del perdono fraterno, dell’umile verifica delle proprie responsabilità, della speranza di rigenerare tessuti logorati dal pregiudizio e dall’abitudine. Come ci ricorda ancora Bonhoeffer nel suo Vita comune: «La fraternità cristiana non è un ideale, ma una realtà divina; la fraternità cristiana è una realtà pneumatica, non della psiche».
Indispensabile è il dono della comunione, ricevuto dall’alto, frutto dell’amore di Dio che ci riavvicina, ci pacifica e, «grazie al sangue di Cristo», ci fa essere una cosa sola, «abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2,13-14).
In tal senso, siamo chiamati a sentirci tutti responsabili delle conversioni pastorali in atto, per dare futuro e forma sostenibile alle nostre comunità, a partire dal cambiamento di mentalità che ci è richiesto. Ciascuno di noi può essere un fattore positivo dei processi sinodali oppure divenire un ostacolo che rallenta il cambiamento che idealmente tutti condividiamo, di cui avvertiamo l’urgenza e per il quale intuiamo almeno in parte i criteri e le direzioni. A livello diocesano, possiamo fare riferimento al cammino dell’ultimo decennio, raccolto e rielaborato nel recente documento Artigiani missionari e testimoni di conversione.
Non solo i ministri ordinati, ma tutti i battezzati si pongano perciò a servizio della comunione, operando per rigenerare la speranza di autentici legami cristiani tra le diverse anime della comunità e tra le singole comunità delle Unità Pastorali e i relativi territori.
Questi ultimi anni, anche a causa degli strascichi prodotti dalla pandemia, sono stati segnati da uno sfilacciamento di molte dinamiche ecclesiali, che in precedenza erano ritenute sicure e consolidate. Per questo, un significativo segno giubilare di riconciliazione e rigenerazione – da progettare nelle equipe di comunione e nei consigli di partecipazione – potrebbe essere quello di un “recupero delle relazioni”, che coinvolga tutta la comunità in un’azione capillare di prossimità.
Nelle comunità parrocchiali e nelle Unità Pastorali l’attenzione maggiore dovrà essere rivolta a far vivere l’esperienza della grazia giubilare in modo diffuso e inclusivo, in considerazione dei diversi livelli di appartenenza e di partecipazione dei singoli. Si tratterà di utilizzare creatività e discernimento soprattutto nella pastorale ordinaria, moltiplicando le occasioni per annunciare la virtù della speranza inserita in una spiritualità rinnovata del Sangue di Cristo, curando i segni celebrativi giubilari come “esercizio concreto” di formazione liturgica, promuovendo le opere giubilari della speranza e portando la grazia dell’indulgenza giubilare anche a coloro che sono impossibilitati a recarsi nella basilica di Sant’Andrea e a partecipare alle giornate diocesane.
L’esperienza del pellegrinaggio rappresenta un elemento caratteristico della spiritualità giubilare e, in quanto tale, dovrà essere incentivata e favorita. Anzitutto i pellegrinaggi alla città di Roma, con la visita alle basiliche maggiori e il passaggio attraverso la Porta Santa. In particolar modo potremo prendere parte al “giubileo diocesano” del prossimo 3 settembre, che prevederà la partecipazione della Chiesa mantovana all’udienza con il Papa e la celebrazione dei riti dell’indulgenza plenaria nella basilica di San Pietro.
A livello locale, promuoveremo i pellegrinaggi nella basilica di Sant’Andrea, unica chiesa giubilare diocesana, che verrà eretta a Santuario del Preziosissimo Sangue. In essa sarà intensificata l’azione pastorale per accogliere i pellegrinaggi delle nostre Unità Pastorali, come pure i pellegrini che provengono da fuori diocesi e i turisti occasionali, a cui desideriamo offrire l’opportunità di una visita culturale che diventi un momento di annuncio e di positiva accoglienza.
Anche nelle altre diocesi della nostra regione ecclesiastica di Lombardia sono state individuate delle chiese giubilari, che possono diventare meta di pellegrinaggi individuali o comunitari.
Le famiglie sono invitate ad apprendere nuove forme e modalità per vivere l’esperienza della riconciliazione, favorendo al loro interno una rigenerazione relazionale. Molte di esse si trovano a vivere momenti critici nel rapporto di coppia e nella relazione genitoriale e, in tali situazioni, vi è il rischio di perdere la fiducia e la speranza nella positività dei propri legami, fino a porre in discussione l’opportunità di un futuro vissuto ancora insieme.
Ogni circostanza – dagli incontri informali ai momenti formativi e liturgici – può suscitare l’arte dell’ascolto e del rammendo dei rapporti familiari nella speranza di una possibile ripartenza, per apprendere l’iniziativa del primo passo che riprende i contatti, per tornare a parlare senza accusarsi, per trovare mezzi semplici di ammissione dei propri errori, per chiedere e accordare il perdono, per cicatrizzare vecchie ferite abbattendo il potere del risentimento e della ritorsione che prolungano il farsi male a vicenda. Non si tratta di mere tecniche psicologiche e relazionali per superare i conflitti, ma di gesti umani radicati nella grazia del perdono di Dio, che ci viene dall’ascolto del Vangelo, dalla preghiera personale e famigliare, dagli itinerari penitenziali.
In ogni comunità dovrà essere riproposto, con sensibilità e discrezione, anche il percorso di riconciliazione per le persone separate e divorziate che vivono una seconda unione. Infatti, parecchie coppie che si trovano ad affrontare “situazioni particolari” non sono a conoscenza della possibilità di intraprendere questo cammino inaugurato dall’Amoris Laetitia. Il Giubileo costituisce un tempo propizio per portare a compimento quelle promesse di bene e di grazia che, al momento, sono come “sospese”. In tal senso, un annuncio privilegiato deve raggiungere le coppie cristiane che si trovano nella convivenza e non avrebbero impedimenti per portare a compimento la loro unione con la benedizione sacramentale.
Una riconciliazione giubilare con le famiglie deve avvenire anche in seno alle comunità cristiane. Non sono pochi i nuclei che – pur riconoscendosi in qualche espressione cristiana – non avvertono un senso di appartenenza e faticano a vivere l’esperienza liturgica, complici la mobilità territoriale e i tempi del lavoro che non favoriscono la partecipazione ai riti e ai momenti comunitari. Per questo sono necessarie forme di “aggancio positivo”, che facciano percepire una comunità attenta, calda e interessata, che preferisce il “benvenuto” ai modi giudicanti e alla fredda burocrazia, soprattutto nei confronti di coloro che avvertono imbarazzo nell’affacciarsi occasionalmente alla Chiesa.
Gli operatori della pastorale battesimale e dell’accompagnamento al sacramento del matrimonio, i catechisti dell’iniziazione cristiana e gli animatori della pastorale giovanile e famigliare possono divenire le sentinelle di queste delicate soglie domestiche. Un momento di grazia giubilare per tante famiglie che, di fatto, non parteciperebbero a nessuna delle proposte offerte durante l’anno potrebbe essere quello della visita alle loro case per condividere la “Benedizione Giubilare”, secondo forme innovative che coinvolgano sia i ministri ordinati che i laici della comunità.
Nel corso dell’anno pastorale, anche quale avvicinamento al Giubileo dei giovani a Roma, il Tavolo per l’Età Evolutiva proporrà alcune tappe giubilari nei vicariati e nelle zone della diocesi.
Le nuove generazioni sono al cuore della nostra attenzione e, per questo, occorre agevolare l’incontro dei giovani delle singole comunità con gli altri giovani cristiani a livello diocesano e di Chiesa universale, favorendo aperture e contagi di speranza.
Il territorio mantovano rischia un progressivo impoverimento nella fascia giovanile, per i noti motivi legati al mercato del lavoro, alle opportunità di studio universitario e alle prospettive di futuro che sembrano più favorevoli altrove. Nel “piccolo” i ragazzi faticano a trovarsi a proprio agio e le loro speranze si trasferiscono a cerchi di coinvolgimento sempre più ampi. All’interno di questo dinamismo apparentemente centrifugo non dobbiamo però avere il timore “di perderli” in quanto, qualora li forzassimo all’interno di gruppi chiusi e dalle prospettive limitate, li smarriremmo per mancanza di proposte rigeneratrici di speranza. Per loro e per tutti noi è promettente, sensato e fruttuoso appartenere a una Chiesa che dilata i propri orizzonti, che li porta al cuore del Vangelo, li accompagna nei processi vocazionali e li apre a un futuro personale condiviso.
Purtroppo, in ogni comunità vi sono anche uomini e donne che rischiano di rimanere “invisibili”, sentendosi estranei, marginali, non graditi e non degni di attenzione. In questo tempo giubilare siamo chiamati a privilegiare l’attenzione verso coloro che, a motivo di varie limitazioni o disabilità, sono privati dell’esperienza comunitaria. Tali iniziative possono diventare lo stimolo per intraprendere uno stile abituale di accorta sensibilità per abbattere le barriere (non solo architettoniche) e facilitare la partecipazione dei fratelli fragili ai momenti liturgici, formativi e conviviali.
Ad esempio, i ministri straordinari della comunione e gli accoliti potrebbero attivare, almeno in alcune circostanze, un servizio di trasporto per far partecipare anziani, malati e disabili alla Messa festiva. Così come nelle esperienze estive (Grest, campi, pellegrinaggi giubilari...) potremmo attrezzarci per “invitare” ragazzi, adolescenti e giovani diversamente abili, mettendoli nella condizione di esprimere il proprio “carisma”, attivando nel gruppo dei compagni una rete di energia positiva di servizio e di sensibilità altamente formativa.
«La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo» (Gn 4,10), è l’accusa mossa da Jahvè a Caino, colpevole dell’assassinio del fratello. Il sangue di Abele, primo uomo a cadere per mano di un altro essere umano – e, per giunta, di un fratello – diventa simbolo di ogni ingiustizia e di ogni oppressione umana, il cui grido trova sempre ascolto presso Dio. Nel suo disegno di salvezza, Gesù Cristo, l’Agnello immolato, si è fatto vittima innocente e solidale con tutte le vittime della storia, che in lui trovano riscatto e redenzione.
Anche per noi, ascoltare e rispondere al “grido del sangue” rappresenta un appello missionario a portare in ogni situazione di violenza, di degrado, di autoisolamento, di fragilità psichica e di marginalità sociale la forza rigenerante del Sangue di Cristo, che si è fatto amico delle nostre piaghe. In un componimento spirituale di Edith Stein, scritto nella terribile temperie dell’olocausto, leggiamo: «Attraverso la potenza della Croce puoi essere presente su tutti i luoghi del dolore, dovunque ti porta la tua compassionevole carità, quella carità che attingi dal Cuore divino e che ti rende capace di spargere ovunque il suo preziosissimo sangue per lenire, salvare, redimere» (Ave Crux, spes unica).
In questa prospettiva universale, appare assai significativo un avvenimento legato al Preziosissimo Sangue, sconosciuto ai più. Nel 1877 Daniele Comboni – che, come sappiamo, sarà il primo vescovo cattolico dell’Africa Centrale – ricevuta da pochi mesi l’ordinazione episcopale, prima di ripartire per la propria missione nel continente africano, chiese all’allora vescovo di Mantova di ricevere in dono una particella della reliquia, da incastonare nella sua croce pettorale. Un segno, non solo di devozione personale, quanto di autentica spiritualità missionaria: «Siccome queste anime che andiamo a cercare con tanta fatica e pene inaudite sono riscattate dal Sangue di Gesù Cristo, siamo sicuri che Dio ci aiuterà» (Scritti, n. 4072). Avremo a Mantova la croce vescovile contenente il frammento del Sangue di Cristo in occasione della celebrazione del prossimo 12 marzo – memoria del ritrovamento della Reliquia – in cui, insieme ai vescovi della Conferenza Episcopale Lombarda e ai fratelli delle chiese non cattoliche, pregheremo per le vocazioni all’evangelizzazione dei popoli, ricordando i nostri missionari martiri e quelli delle diverse confessioni cristiane, che sono «semi di unità perché esprimono l’ecumenismo del sangue» (SnC 20).
La grazia giubilare, quindi, supera il perimetro ecclesiale per suscitare segni del Regno e opere della speranza nel vasto campo del mondo. In tale prospettiva, la nostra Chiesa mantovana è chiamata ad approfittare del tempo favorevole dell’Anno Santo per far sperimentare gli aspetti sociali ed esistenziali della redenzione. La “spiritualità del Sangue di Cristo” arricchisce gli elementi legati alla devozione con le forme della profezia storica fatta di gesti e opere, che sono un annuncio dell’amore redentivo di Cristo nei contesti del vivere umano.
Il segno della permanenza del sangue di Cristo sulla terra, anche dopo la sua ascensione al cielo, rivela che l’agire umano non contraddice in alcun modo l’attesa della Gerusalemme celeste, che trova nella città degli uomini il suo “avamposto” terreno, unificando storia ed eternità.
La speranza cristiana alimenta l’impegno nel mondo e in favore del mondo per contribuire all’espansione del Regno di Dio attraverso azioni creative di giustizia, di pace e di fratellanza.
La spiritualità del Sangue di Cristo può offrire un modello per tutti coloro che operano nelle periferie esistenziali e intendono inserire la speranza nei punti cruciali di un tessuto sociale che penalizza i deboli, i fragili e gli svantaggiati.
Spesso, chi si impegna nella promozione del bene e della giustizia incontra resistenze e ostilità, che non di rado suscitano demotivazione e tolgono la fiducia in un possibile cambiamento. Eppure, la speranza del cristiano non può che rianimarsi nella consapevolezza che Gesù Cristo ha vinto il mondo accettando di perdere sé stesso, riponendo nel Padre tutta la sua fiducia.
I credenti rispondono al “grido dei poveri” e al “grido della terra” pronunciando una parola profetica in difesa della preziosità di ogni persona, in quanto degna di stima agli occhi di Dio (cfr. Is 43,4), che ci ha «comprati a caro prezzo» (1Cor 6,20) «con il sangue prezioso di Cristo» (1Pt 1,19). Restituire dignità a coloro a cui è stata sottratta rappresenta un gesto essenziale della nostra conversione giubilare.
Anche a livello personale, nel corso dell’Anno Santo siamo chiamati a compiere passi di riavvicinamento, di chiarimento e di umile richiesta di perdono per ricucire legami e restituire all’altro quella dignità negata dalle nostre parole e azioni.
La rieducazione al rispetto delle persone e della vita umana ci abilita a intraprendere un’opera di ricostruzione dei tessuti sociali. La speranza, infatti, sa “osare” oltre i perimetri convenzionali, affinché anche a chi si è macchiato di gravi crimini sia riconosciuta una dignità, affinché il valore delle persone non sia misurato solo sul reddito, affinché tutti possano tutelare la propria salute, affinché non sia lasciato nella disperazione chi ha fallito nel lavoro e nella vita professionale. In questo senso, i centri di ascolto e i servizi Caritas rappresentano uno “sportello della speranza” a cui tanti si rivolgono per ripartire. Il futuro di queste opere-segno dipende dalla sinergia con le comunità locali e dal sostegno di volontari e benefattori. Tuttavia, non è opportuno delegare il servizio alle persone fragili solo agli specialisti del settore, in quanto ognuno di noi può moltiplicare i gesti della prossimità e contribuire ai progetti di più ampio respiro promossi dalle realtà ecclesiali e associative.
Il Giubileo è un tempo di grazia che tocca le forme concrete dell’esistenza anche in ordine alla convivenza civile, ai rapporti professionali, ai grandi temi relativi alla pace, alla giustizia riparativa, all’ecologia integrale, all’educazione, alle politiche sanitarie e familiari. Pertanto, esso rappresenta un’occasione propizia per coinvolgere alcuni “mondi laici” nell’esprimere insieme alla comunità civile – che è più grande e complessa di quella ecclesiale – alcuni segni di speranza adatti al proprio contesto. È questo l’obiettivo che desideriamo raggiungere con la proposta delle “opere della speranza” e dei “giubilei particolari” che abbiamo previsto per diversi gruppi e categorie.
Un esempio concreto di questo coinvolgimento è rappresentato dalla rassegna Accorciamo le Distanze, promossa dal Laboratorio di Civiltà che, prendendo spunto dall’esperienza della Settimana Sociale dei Cattolici Italiani di Trieste, desidera proporre iniziative di valorizzazione e di condivisione di buone pratiche di imprese, lavoratori e associazioni, con un’attenzione alle modalità con cui giovani, donne, persone con fragilità e imprenditori vivono il mondo del lavoro, nella conciliazione con la vita personale, famigliare e sociale.
Anche nelle nostre comunità potremo proporre momenti di incontro e di riflessione su tematiche di interesse condiviso e, con coraggiosa saggezza, affrontare aspetti concreti dei vissuti locali, manifestando la volontà di superare i conflitti, ricomprendere gli obiettivi comuni e pacificare le parti in vista di nuove “alleanze di speranza” per il territorio. Il Tavolo per il Bene Comune potrà offrire il proprio sostegno, fornendo indicazioni e sussidi per una “Ritualità della Speranza” condivisa con la comunità civile.
Tra le modalità per ricevere la grazia dell’indulgenza indicate dalle Norme sulla concessione dell’Indulgenza durante il Giubileo Ordinario dell’anno 2025 emanate dalla Penitenzieria Apostolica, come Chiesa mantovana abbiamo scelto di sottolineare alcuni momenti comunitari. Pertanto, nelle pagine che seguono troveremo una sorta di “calendario giubilare” suddiviso in diverse sezioni.
La prima riguarda i “pellegrinaggi giubilari”, sia quelli a Roma che quelli nella chiesa giubilare di Sant’Andrea, che ogni Unità Pastorale è invitata a organizzare nel periodo tra gennaio e aprile.
La seconda illustra i “segni giubilari”, cioè le abituali convocazioni diocesane, che assumeranno una specifica connotazione e saranno vissute all’interno della basilica di Sant’Andrea.
La terza sezione è dedicata alle “opere della speranza”, quali esperienze legate alle opere di misericordia corporale e spirituale che, declinate in chiave attualizzata per i nostri contesti, rappresentano un’estensione della grazia giubilare al territorio, specialmente nel tempo quaresimale.
La quarta è riservata ai “giubilei per categorie particolari”, che richiamano le giornate che ogni anno vengono dedicate a un tema o a un gruppo specifico. La maggior parte di questi appuntamenti – che possono prevedere un momento di dialogo tematico, seguito dalla visita e da un momento celebrativo in Sant’Andrea – è prevista per il prossimo autunno.
La quinta sezione raccoglie alcune “giornate giubilari” da vivere nei santuari diocesani – e anche in altri luoghi della diocesi con particolare significato spirituale per le comunità locali – in cui sarà possibile ricevere la grazia dell’Indulgenza.
Inoltre, nel prossimo anno pastorale – che vedrà appuntamenti giubilari fino al 28 dicembre – verrà prolungata l’attenzione alla formazione biblico-liturgica.
Nel 2026, poi, daremo particolare rilievo alla ricorrenza del terzo centenario della canonizzazione di san Luigi Gonzaga, una figura di santità mantovana che ha saputo fare sintesi della meditazione orante del Vangelo, della liturgia interiorizzata in un’intensa esperienza di preghiera personale e della carità fino al dono della vita. La sua testimonianza esemplare ci accompagnerà nel compito missionario di dare la forma di Cristo alle nostre comunità, grazie alla mediazione ecclesiale della salvezza che pone Parola, liturgia e carità nella loro indisgiungibile circolarità.
Alcuni temi fondamentali contenuti nella Lettera giubilare meritano una particolare attenzione: sono le parole della speranza, sulle quali alcuni presbiteri, consacrati e laici della nostra diocesi hanno realizzato degli approfondimenti, che è possibile leggere e scaricare qui sotto.