«Ogni tua speranza è il sangue di Cristo»

Riconciliazione

La penitenza (comunemente detta “confessione”) non è l’unico sacramento ecclesiale di perdono. La prima penitenza, infatti, è quella battesimale: all’inizio della vita cristiana vi è un atto “originario” di remissione del peccato, il Padre ci rende figli adottivi e promette di rigenerarci ogni volta che torneremo ad essere figli peccatori. La seconda penitenza è quella quotidiana, per assimilare la grazia del battesimo e approfondire la comunione con la Trinità e con il corpo di Cristo che è la Chiesa. Le vie penitenziali ordinarie sono molte: la preghiera, il digiuno, le varie forme di carità, i pellegrinaggi, ma soprattutto la celebrazione eucaristica in cui attingiamo i frutti del sacrificio di riconciliazione per la remissione dei peccati. La terza penitenza è la Riconciliazione, che consiste nel recupero della comunione nello Spirito Santo (la “grazia”) dopo il peccato che ha compromesso radicalmente il rapporto con Dio. Il peccato del cristiano è cosa seria: contraddice le promesse battesimali, ferisce la comunità santa dei discepoli, inquina la convivenza umana, rafforza il male sociale e ambientale. Poiché il peccatore è un già cristiano, occorre un rimedio proporzionato a questa crisi interna alla Chiesa. La pedagogia divina prevede una “seconda tavola di salvezza” per i cristiani “naufragati” di nuovo nel peccato; quasi un “secondo battesimo” in cui il cristiano peccatore, mosso dalla grazia, ripercorre alcune tappe precise del cammino penitenziale.

Questo itinerario prevede il pentimento del cuore maturato dall’ascolto della Parola di Dio, che illumina la coscienza e, mentre annuncia l’amore di Dio, rivela la malizia e l’insensatezza del “peccato madre” che è l’incredulità, la dimenticanza di Dio per tornare agli idoli. Il peccato radicale fruttifica nei peccati al plurale, cioè in quegli atti concreti che riguardano i diversi aspetti della vita umana, alterano gli equilibri interiori del cristiano, deformano le relazioni e falsificano i comportamenti. Confessare – e non “coprire” il peccato – comporta per il penitente un’operazione di verità interiore condotta dallo Spirito che, anzitutto, lo porta al cospetto del Crocifisso per riconoscere il suo giudizio sul peccato del mondo e la parola di assoluzione pronunciata dal Padre nella Pasqua di Gesù per distruggere il corpo del peccato e rigenerare l’umanità. Confessare il Signore, riconoscere il suo amore paziente e fedele, è il primo passo per “confessarsi” peccatori, non cercare forme di auto-espiazione o autogiustificazione, ma accettare da Dio la grazia del perdono e collaborare per riparare la vita cristiana.

L’atto di confessione chiede, per poter trovare le parole adatte ad esprimere il peccato (madre) e i (singoli) peccati, di maturare prima un pentimento sano nella contemplazione dell’amore senza limiti del Padre che con il dono massimo del preziosissimo Sangue del suo Figlio ci ha liberati dalla prigionia del male. Dispiacere, rimorso e senso di colpa possono essere i sintomi di un pentimento immaturo e “patologico”, che invece di aprire all’amore di Dio rinforza il ripiegamento su sé stessi e conduce alla disperazione spirituale che è il peccato più grave. Sul terreno del cuore reso fertile dalla grazia di Dio – che accompagna l’itinerario penitenziale sin dall’inizio – sboccia il desiderio di trovare nella Chiesa la parola umanizzata del perdono di Dio reso vicino e percepibile dal sacramento in cui tutta la Chiesa, non solo il ministro ordinato, intercede e accompagna all’incontro riconciliante.

La “confessione” non è una generica conversazione di tipo psicologico o pastorale. È l’atto liturgico con cui si confessa nella lode di appartenere all’Alleanza di Dio, ci si confessa peccatori e si “nominano” i peccati (con semplicità e per quello che sono in realtà), si confessa la fiducia in un futuro rinnovato dalla grazia, protesi in avanti e dimentichi del passato sebbene la fede ci insegni che Dio userà anche un passato cattivo per cavarne del bene. Il passato lascia i segni del male fatto o subito, imprime le sue ferite in particolari aspetti della personalità indeboliti e dissestati dai vizi, da cui si guarisce con la pratica delle virtù contrarie. A questo serve la tappa successiva delle opere penitenziali, che non sono castighi o punizioni da subire passivamente, ma opere “medicinali” da accogliere volontariamente e praticare nel tempo per prolungare la grazia dell’assoluzione in un “periodo di convalescenza” durante il quale, attraverso alcuni esercizi spirituali, si è aiutati dalla comunità a recuperare una vita cristiana normale: imparare nuovamente la preghiera personale e la partecipazione alla vita liturgica, staccarsi da consuetudini sbagliate e assumere nuove abitudini e stili di vita, ripensare la propria mentalità e i modi di giudicare l’attualità, soprattutto rinnovare le relazioni fraterne e sociali compromesse dal peccato.

Questo aspetto più storico e relazionale è tra i più trascurati nella prassi penitenziale odierna. Nell’immaginario “cattolico” basta confessarsi per aver “cancellato” le colpe verso gli altri e sentirsi a posto con la coscienza davanti a Dio. Come se il fatto di rivolgersi all’istanza di un tribunale superiore, quello divino, comportasse la scomparsa del volto delle vittime verso le quali non si avverte alcuna responsabilità di riparare l’offesa, farsi carico delle conseguenze negative che ancora pesano sui loro destini, attendere umilmente da loro la parola del perdono e la mano della riconciliazione. La spiritualità del Giubileo, con la sua particolare attenzione ai temi della giustizia riparativa e del condono dei debiti, può rappresentare l’occasione per favorire segni e gesti di riconciliazione sociale dove la guarigione della memoria collettiva passa attraverso la presa in carico del volto delle vittime e l’umile ammissione delle colpe, dei singoli ma anche quelle colpe sociali dovute alla complicità di molti a un sistema che ingenera disuguaglianze, ingiustizie, oppressioni.

Oltre a riservare del tempo dedicato alla celebrazione della Riconciliazione nelle comunità parrocchiali e nei santuari, grazie alla disponibilità di confessori in orari confacenti agli impegni effettivi delle persone, sarà importante riprendere in questo anno una “pastorale penitenziale” più complessiva e organica che si proponga di accompagnare in percorsi penitenziali le singole persone e le comunità seguendo i tempi dell’anno liturgico e valorizzando alcune forme della pietà popolare.

É ancora molto accentuato l’individualismo in questo ambito della vita cristiana: colpa e pentimento sono “affari privati”, mentre sappiamo come le comunità si indeboliscono se rimangono senza il rimedio della penitenza che va proposto come cibo quotidiano e non come “rito straordinario”. Occorrono delle attenzioni per celebrare al meglio la Riconciliazione, non come semplice dialogo (penitente e confessore) ma come tri-alogo sacramentale (Dio, penitente, Chiesa-ministro).

+ Marco Busca