Vescovo Marco
L’azione di papa Francesco per “fare il Concilio”
Marco Busca
21 Maggio 2024
La redazione del sito ha scelto di dare ampia visibilità a una riflessione del Vescovo in ordine al pontificato di papa Francesco, intervento che era stato richiesto per un incontro con un’associazione laica mantovana.
La lettura, necessariamente lenta, potrà aiutare a ritrovare - ben aldilà delle inevitabili semplificazioni mediatiche a cui siamo quotidianamente sottoposti - la chiarezza di un Magistero saldamento ancorato alla grande Tradizione ecclesiale e fedelmente impegnato nel “fare il Concilio”.
Scrive il vescovo Marco all’inizio del suo intervento:
«La lettura e l’interpretazione di avvenimenti e dinamiche ancora in corso e nei quali ci si trova inseriti è un’operazione che, a livello storiografico, presenta sempre un certo margine di rischio. Tuttavia, in questo intervento, mi è stato chiesto di proporre una riflessione sul pontificato di Francesco, a partire dal suo magistero e, più in generale, dallo stile e dall’immagine di Chiesa che si va tratteggiando sotto la sua guida e ispirazione».
La lettura e l’interpretazione di avvenimenti e dinamiche ancora in corso e nei quali ci si trova inseriti è un’operazione che, a livello storiografico, presenta sempre un certo margine di rischio. Tuttavia, in questo intervento, mi è stato chiesto di proporre una riflessione sul pontificato di Francesco, a partire dal suo magistero e, più in generale, dallo stile e dall’immagine di Chiesa che si va tratteggiando sotto la sua guida e ispirazione. Si tratta di un tentativo di comprensione che, per risultare rispettoso e coerente, richiede una dilatazione di prospettiva, prendendo le mosse dal concilio Vaticano II e dai pontificati che lo hanno accompagnato e, successivamente, posto in atto.
Non pochi studiosi condividono l’idea che ci troviamo alle prese con una nuova fase di recezione dell’insegnamento ecclesiologico espresso dal Concilio, di «uno sviluppo dell’evento Vaticano II»[1]. Il teologo Piero Coda ricorda che: «Francesco è il primo papa che non ha partecipato al concilio Vaticano II. Ma, l’insegnamento conciliare scorre nelle sue vene, illumina i suoi pensieri, accende i suoi sogni, ispira le sue decisioni»[2].
Nell’ottobre del 2013, presentando a Roma il suo libro La sorpresa di papa Francesco, Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha rivelato come, nel corso di un suo colloquio con Francesco, si fosse permesso di fargli notare la scarsità di riferimenti al Concilio all’interno dei suoi interventi. La risposta che ricevette fu: «Il Concilio bisogna farlo, più che parlarne». La prospettiva di una recezione creativa e operativa dell’evento conciliare, infatti, è dichiarata fin da quello che può essere considerato il documento programmatico del pontificato, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG), dedicata all’“annuncio del Vangelo nel mondo attuale. In essa, Francesco sposa e rilancia l’istanza riformatrice: «Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura ad una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo» (EG 26).
Quindi, se da una parte Francesco mantiene vivo il rapporto con il Concilio, dall’altra riscrive con una libertà reale il corpus conciliare a partire dal principio che il Vaticano II ha rappresentato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. La stagione conciliare rimane paradigmatica di quella capacità insita nella Chiesa di innescare movimenti di rinnovamento lasciandosi fecondare dalla perenne novità del Vangelo. In questo senso, la lezione del Concilio vale più come “evento” che come “documento”. E, in questo senso, rimane “da fare”, in quanto il complesso iter della sua recezione implica l’apertura a fermenti non ancora dispiegati in tutta la loro potenzialità.
In proposito, richiamo l’attenzione sulla linea della continuità ideale tenuta da Francesco rispetto ai “papi conciliari” in ordine alle riforme ecclesiali, non solo per quanto concerne la dottrina, ma soprattutto nello stile adottato. Con il più sobrio Paolo VI, Bergoglio condivide sia la visione di una Chiesa in dialogo con il mondo che un magistero impostato sui gesti e sui segni. Papa Montini, infatti, abolì il rito dell’incoronazione e l’uso della tiara, preferendo uniformarsi agli altri fratelli vescovi anche negli abiti liturgici. Inoltre, compì alcuni significativi gesti “fuori programma”, come prostrarsi e baciare i piedi al metropolita ortodosso Melitone oppure, deviando dal programma della visita a Gerusalemme, recarsi a casa di un ragazzo palestinese malato. Ancora, l’azione riformatrice dei due papi è accomunata dall’impegno nella riforma della Curia romana[3], nonché dalla sensibilità per l’umanesimo e le conquiste tecnico-scientifiche. Basti pensare ai “discorsi positivi” di Paolo VI in occasione dello sbarco sulla luna e a come l’enciclica Popolorum progressio contenga in gestazione i temi dell’ecologia integrale poi sviluppati dalla Laudato si’. Nella sua visita all’ONU il 4 ottobre 1965, poi, Paolo VI parlò davanti ai rappresentanti di 117 nazioni, presentandosi non come un maestro di civiltà venuto a impartire lezioni magistrali, ma come il pellegrino portavoce di una Chiesa “esperta in umanità”, che da secoli cammina sulla strada della storia.
A partire dall’espressione “il Concilio bisogna farlo”, quindi, ho scelto di individuare alcuni ambiti in cui l’azione di papa Bergoglio ha aperto nuove prospettive di recezione del Vaticano II. Da più parti, infatti, una critica avanzata all’attuale pontificato è quella di aver puntato maggiormente su argomenti sociali, ecologici e geopolitici, piuttosto che sul magistero dottrinale della salvaguardia e della promozione della fede cattolica. Tuttavia, già dalla sua prima enciclica – la Lumen fidei – egli desidera recuperare il nesso fondamentale tra Cristo e la Chiesa, in continuità con il primo capitolo della Lumen Gentium, laddove si afferma che non la Chiesa, bensì Cristo è luce delle genti. L’elemento di novità, semmai, è l’applicazione del principio della sacramentalità della Chiesa in chiave di evangelizzazione: i cristiani partecipano della luce di Gesù e la riflettono sugli altri trasmettendo la fede nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma. Da qui la conseguenza che la riforma di cui la Chiesa necessita «non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture», ma consiste, in primo luogo, nell’«innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito» (n. 37). L’azione dev’essere concomitante: persone rinnovate, rinnovano le strutture e le organizzazioni.
Il processo di riforma riguarda il cristianesimo stesso, come figura storica che necessita di una rivisitazione radicale. Per molti cattolici (o ex cattolici), infatti, esso rischia di non rappresentare più una figura di fede desiderabile e “culturalmente abitata”. La sfida di elaborare una proposta di fede capace di interpretare la vita umana, che sia attuale e affascinante per l’oggi, chiede di rivedere un certo “cristianesimo del dovere”, in cui dottrina, pratiche religiose e regole morali avevano al centro la dimensione dell’obbligo; come pure di rivedere un “cristianesimo dell’impegno”, che pone al centro esclusivamente la dedizione verso gli altri – specie per i poveri – le organizzazioni caritative e le sfide umanitarie. Senza sottostimare questi valori, che sono intrinseci all’esperienza cristiana, comprendiamo tuttavia come queste figure di fede abbiano via via portato molti ad allontanarsi dal cristianesimo e dalla Chiesa, in special modo i più giovani. In questo tempo del disincanto, di una ritrovata consapevolezza della fragilità umana, dei rischi di una disumanizzazione legata allo spaesamento e alla mancanza di speranza, i documenti di papa Francesco spostano il baricentro della fede su un altro punto fermo, che non è il dovere o l’impegno, ma il primato della grazia, della misericordia e della gioia dell’Evangelo.
La fede ridotta a conoscenza concettuale di informazioni su Dio e a buona pratica morale perde il sapore della novità dello Spirito e il potere sorprendente della risurrezione di Cristo:
«Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o kerigma, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale […]. Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”» (EG 164).
Nella Evangelii gaudium la scelta dichiarata circa la priorità dell’annuncio riguarda l’amore incondizionato di Dio Padre manifestato nella predicazione di Gesù e realizzato definitivamente nella Pasqua, che ha inaugurato i tempi escatologici del Regno apportatore di perdono, di riconciliazione e di rigenerazione dell’umanità. Il primato va all’agire salvifico di Dio che prende l’iniziativa di andare incontro all’umanità per salvarla dal non-senso, dal disorientamento, dal nichilismo, dall’individualismo esasperato, dalla distruzione ambientale, dai conflitti e dalle ingiustizie che moltiplicano le povertà. In una parola, da tutte conseguenze antropologiche, sociologiche e ambientali del peccato.
Tutti i battezzati, in quanto discepoli-missionari, sono inviati ad annunciare il Vangelo a tutti, ma «non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (EG 14). Dunque, si tratta di un’operazione di riconfigurazione radicale del messaggio cristiano intorno al kerigma di Gesù Cristo apportatore di gioia. Non a caso, i titoli dei principali documenti del pontificato bergogliano sono marcati dal segno della gioia: per la riscoperta dell’amore incondizionato di Dio che ci dona la casa comune da custodire (Laudato si’ e Laudate Deum), per l’amore di coppia e di famiglia da accompagnare anche quando è ferito (Amoris laetitia), per la missione di evangelizzare a cui tutti sono chiamati e abilitati come discepoli-missionari accomunati dalla vocazione alla santità (Gaudete et exultate ed Evangelii gaudium). Porre l’accento sulla grazia non significa sminuire il senso del dovere e dell’impegno a cui la struttura del cristianesimo tradizionale ci aveva allenati, bensì non farne il punto di partenza della fede, quanto piuttosto l’eco riconoscente della grazia che, quando è seriamente accolta, ci rende più responsabili e gioiosi. L’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale; la gioia del dono precede l’impegno della risposta. Anche in questo Francesco prende il testimone di papa Montini, autore di una significativa esortazione sulla gioia cristiana: la Gaudete in Domino del maggio 1975.
Con una semplicità quasi disarmante, ma non ingenua perché fondata sul criterio conciliare della “gerarchia delle verità” (Unitatis redintegratio n. 11), l’Evangelii gaudium riconduce l’esperienza della fede all’essenziale, che non è anzitutto l’elemento dottrinale, ma l’evento dell’amore paterno di Dio:
«Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (EG n. 35).
L’originalità comunicativa di papa Francesco è legata alla ricca produzione di immagini e, tra quelle di maggiore successo, vi è senz’altro la visione di una Chiesa missionaria, in uscita. L’azione centrale del pontificato è la messa in atto dell’idea conciliare di una Chiesa strutturalmente missionaria per sua natura (cfr. il decreto conciliare Ad gentes), come totalità delle persone battezzate responsabili dell’annuncio del Vangelo e implicate nel progetto di riforma della Chiesa «perché tutto in essa (strutture, linguaggi, comportamenti) diventi un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale» (EG 27).
Lo strumento pratico - l’esperienza ecclesiale di dimensioni universali in grado di innescare questo processo di cambiamento con al centro il kerigma - è stato il Giubileo straordinario della misericordia del 2016. La misericordia rivela il tratto fondamentale del volto di Dio Padre che si è rivelato compiutamente nel Figlio Gesù. Il “vangelo della misericordia” ha fortemente caratterizzato la prima stagione ecclesiale bergogliana. Anche qui tengo a precisare che sarebbe fuorviante attribuire a papa Francesco un carattere di assoluta novità. Papa Roncalli, infatti, parlava spesso della Chiesa come di una madre e - nel discorso di apertura del Vaticano II dell’11 ottobre 1962 - indicò la via da seguire: «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imboccare le armi del rigore». Mentre papa Montini, a conclusione del Vaticano II, aveva affermato che la religione del Concilio era stata «principalmente la carità» e che il paradigma della spiritualità conciliare era stata «l’antica storia del Samaritano». Infine, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno pubblicato rispettivamente l’enciclica Dives in misericordia e l’esortazione apostolica Deus Caritas est. Nel concreto, poi, tutti questi pontefici hanno visitato carceri, ospedali e altre periferie esistenziali.
Certamente, con papa Bergoglio siamo entrati in una nuova fase di recezione della sensibilità conciliare sulla misericordia. Egli è preoccupato di quella fetta consistente di persone (battezzate e non) che non si sono sentite a casa nella Chiesa. Per esse il Papa ribadisce l’idea di una Chiesa che non rappresenti una “dogana”, ma debba essere sempre in grado di accogliere «ciascuno con la sua vita faticosa». Nella visione di Francesco, il termine “misericordia” costituisce la sintesi del mistero della fede cristiana. Non un tema tra gli altri dell’agenda ecclesiale, ma il tema che «esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale». Puntare sulla misericordia significa «puntare l’attenzione sul contenuto essenziale del Vangelo di Gesù»[4]. Un’applicazione del principio riformatore della misericordia è visibile nel caso concreto delle coppie “ferite” (espressione preferita a “irregolari”) di separati e divorziati in nuova unione, per le quali il capitolo VIII dell’Amoris laetitia autorizza a promuovere percorsi di accompagnamento, discernimento e integrazione. Il paradigma ideale di questo stile di accoglienza è l’accompagnamento di ogni persona (al di là degli orientamenti sessuali, politici ed ecclesiali), che si risolve nell’aprire con gioia la porta a chi bussa «in qualunque condizioni si trovi», ma anche a compiere con questa persona dei «passi di crescita, a capire ciò che non ha ancora capito».
Quando lo scorso 2 febbraio, come vescovi lombardi, siamo stati ricevuti per la visita ad limina Petri, uno di noi ha rivolto una domanda esplicita al Papa su come si debba interpretare il suo ricorrente invito a una Chiesa ospitale e capace di accogliere tutti. Egli ha risposto rifacendosi alla parabola degli invitati al banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14) in cui il re, protagonista del racconto, dice ai servi: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (v. 9). La parola-chiave è “tutti”. Tutti coloro che lo desiderano devono sentire di poter entrare in quella casa che è la Chiesa, perché questo corrisponde all’intenzione divina espressa nella parabola evangelica. Poi - ha continuato il Papa - una volta che si è dentro la casa si discute e si chiariscono i vari punti che riguardano la fede e la morale a cui i credenti si rifanno alla luce della rivelazione. Perciò accogliere tutti è cosa diversa dall’accogliere tutto: «L’insistenza di papa Francesco sull’accogliere “tutti, tutti, tutti” non significa alcun relativismo rispetto agli ideali. Questi rimangono intatti. Il Papa afferma che la Chiesa deve sapere accogliere tutti, ma non dice né può dire come ciò avverrà caso per caso»[5].
Quando Francesco parla del sogno missionario di arrivare a tutti, possiamo sicuramente affermare che il soggetto di riferimento è “il santo popolo di Dio credente”. Una categoria centrale nei testi conciliari, che la utilizzano più di 180 volte. Nella Evangelii gaudium leggiamo:
«L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (n. 239).
Francesco recupera e rilancia la categoria conciliare di “popolo di Dio” portandola alle sue espressioni più operative e incisive per la riforma della Chiesa in senso sinodale. La sinodalità rappresenta una categoria centrale del magistero bergogliano e dell’attualità ecclesiale. I sedici documenti del Vaticano II non utilizzano né il concetto di sinodo né la terminologia che ne deriva (sinodalità, sinodale...). Eppure, l’ecclesiologia conciliare contiene tracce di sinodalità, soprattutto per le ragioni teologiche (implicite o indirette) che sono la causa della sua riscoperta. Intenzionalmente parliamo di “riscoperta”, perché la sinodalità non è un’invenzione del post-Concilio, così come la collegialità non è stata un’invenzione del Concilio. Riscoperte, dunque, del patrimonio tradizionale della Chiesa indivisa del primo millennio, che faceva della communio l’anima della vita ecclesiale e del synodus l’asse portante della sua struttura operativa a tutti i livelli. Con Francesco è scoccata l’ora della sinodalità, così come al Concilio era scoccata l’ora della comunione e della collegialità dei vescovi. Ora si tratta di assimilare e declinare sinodalmente la comunione e la collegialità, con tutti i risvolti pastorali e giuridici che l’operazione comporta.
L’albero sinodale è, per così dire, una filiazione dell’albero conciliare e papa Francesco non teme di affermare che «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio è quello della sinodalità»[6], in quanto «Chiesa e Sinodo sono sinonimi»[7]. L’ecclesiologia conciliare ha gettato i semi e posto le fondamenta per la costruzione di una solida teologia sinodale, che tuttavia necessita ancora di un consolidamento. Tra le strutture intime del “principio sinodale” è fondamentale l’aver posto alla sua radice la comune dignità dei battezzati, che in forza dell’unzione dello Spirito sono parte del “popolo di Dio”, sacerdotale, profetico e regale. Ne consegue che
«ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati» (EG 120).
Il potenziale iscritto nella parola sinodalità esprime la capacità geniale che «la Chiesa ha di riunirsi, di convenire, di vivere paternità, fraternità e sororità non solo in modo affettivo, ma in modo strutturale, regolato e stabile»[8]. Ogni tavolo sinodale realizzato in scala nelle differenti espressioni della Chiesa (la diocesi, l’Unità Pastorale, la parrocchia, i singoli gruppi...) ricalca il modello conciliare e ricorda le modalità con cui la Chiesa vive, pensa e decide quando celebra i suoi concili.
In questo modo, viene recuperata l’idea originaria che in una Chiesa sinodale «ciò che riguarda tutti, da tutti è trattato», il cammino è fatto insieme senza per questo azzerare le differenze di responsabilità che, comunque, vanno rilette secondo una gerarchia ministeriale. I vescovi e i loro collaboratori non hanno la sintesi dei carismi, ma il carisma della sintesi. Il governo pastorale in forma sinodale assicura la partecipazione di tutti e la valorizzazione di ciascun carisma nell’edificazione comunitaria. Questo è il senso corretto dell’immagine - cara a papa Francesco - della “piramide capovolta”, il cui vertice si trova al di sotto della base. Il servizio specifico del ministero ordinato, infatti, è quello di sostenere e garantire il pieno esercizio del sacerdozio battesimale.
In una Chiesa sinodale non si può separare rigidamente un’ecclesia docens da un’ecclesia discens. Ogni battezzato è profeta e ha una competenza nel saper leggere i segni dei tempi, discernendo le tracce di Dio nella storia. Questo istinto della fede (sensus fidei) lo possiede e lo garantisce la totalità dei fedeli che, nel suo insieme, è infallibile nel credere (infallibilitas in credendo). Anche se questo non va inteso immediatamente nel senso della precisione dei termini e dei concetti impiegati per esprimere le cose divine, ma anzitutto a livello delle prassi esistenziali, liturgiche e morali vissute dal popolo di Dio. Ciò che di nuovo è stato introdotto da Francesco rispetto all’insegnamento conciliare (cfr. LG 12) è il fatto di trattare in modo diffuso della dignità battesimale, del sensus fidelium e della partecipazione corresponsabile di tutti nei processi ecclesiali di discernimento, di riforma e di evangelizzazione, nonché nella decisione concreta di passare da un’assemblea sinodale composta da soli vescovi a un’assemblea rappresentativa del popolo di Dio, formata da uomini e donne.
Facciamo attenzione, tuttavia, a non ridurre la sinodalità a una governance nuova e più efficiente, in senso democratico o parlamentarista. La sinodalità, come si è detto, è anzitutto una partecipazione allo spirito profetico di Cristo e, in tale prospettiva, papa Francesco afferma – andando fuori da ogni schema di elaborazione politica – che ne sono depositari in modo speciale i poveri: «A partecipare del sensus fidei, conoscendo con le loro sofferenze il Cristo sofferente, sono in primo luogo i poveri, dai quali tutti dobbiamo lasciarci evangelizzare, avendo essi molto da insegnarci» (EG 198). Anche in ordine al tema della povertà, quindi, occorre evitare interpretazioni pauperiste o populiste, che sono estranee alla linea di Bergoglio: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri», ha ricordato il Pontefice incontrando i giornalisti il 15 marzo 2013. Anche il sogno della «Chiesa povera e per i poveri» è un rilancio della sensibilità conciliare che «riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente» (LG 8). E lo stile più sobrio e misurato dei “papi postconciliari” rappresenta il segno evidente della recezione di questo insegnamento del Vaticano II.
Un ultimo aspetto del pensiero bergogliano che vorrei toccare è il rapporto della Chiesa con la cultura. Gli studiosi parlano di esculturazione del cristianesimo rispetto alla modernità. Esso appare appesantito dalle reazioni apologetiche dell’Ottocento e del primo Novecento, a cui sono seguiti fermenti in direzione contraria, che sono stati recepiti dal Vaticano II, rimettendo in auge una figura di Chiesa non dirimpettaia del mondo, ma amica del mondo, desiderosa di entrare in dialogo con la cultura moderna, oltre gli steccati, i sospetti e le distanze dei secoli precedenti. La missione di una Chiesa in uscita comporta uno sforzo di inculturazione e un’evangelizzazione delle culture: «La grazia suppone la cultura e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (EG 115). Emblematica è stata la scelta di indirizzare al mondo contemporaneo una riflessione approfondita, anche dal punto di vista tecnico-scientifico, sui temi ecologici, con l’originalità di una prospettiva di ecologia integrale che la Laudato si’ sviluppa nell’ordine di una sostenibilità insieme ambientale, sociale, politica e spirituale.
In questo ordine di cose, si può capire anche la trasformazione in ambito comunicativo a cui papa Francesco ha dato notevole impulso, anche in virtù del suo carisma personale di comunicatore. Il linguaggio “ecclesiastichese”, riservato agli specialisti della teologia e del diritto canonico, è stato superato in favore di un linguaggio immediatamente comprensibile dalla gente comune, che non vive solo di ragione e di pensiero, ma anche di emozioni e di affetti. Allo stesso tempo, cambiare i linguaggi per adeguarli alla comunicazione moderna impone un ripensamento radicale del lavoro intellettuale della Chiesa, cioè della teologia. Essa, pur mantenendo il rigore della razionalità, non può limitarsi alla ricerca accademica fatta a tavolino, ma è chiamata a entrare nei laboratori pastorali, in quanto il suo scopo è non solo quello di custodire, ma anche e soprattutto di comunicare l’Evangelo alle donne e agli uomini di questo popolo e di questo tempo.
Nel discorso al convegno della Chiesa italiana di Firenze, Francesco ha coniato un’altra espressione divenuta proverbiale e citata spessissimo anche in ambienti laici, quale cifra interpretativa della contemporaneità: «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca»[9]. Forse, proprio rispetto alla postura di fronte al fenomeno del cambiamento - a cui è strettamente legata la rilettura della forma Ecclesiae in prospettiva missionaria e sinodale - si delinea la difficoltà maggiore di questo pontificato rispetto alle diverse anime interne al cattolicesimo romano. Nell’incontro con i gesuiti portoghesi del 28 agosto 2023, Francesco ritorna sulle tensioni intraecclesiali e sull’“attitudine reazionaria” di alcuni ambienti che, pur senza nominarlo, mettono in discussione gli insegnamenti del Vaticano II. Il Papa sostiene «una giusta evoluzione» nella comprensione delle questioni di fede e di morale, così che «anche la dottrina progredisce, si consolida con il tempo, si dilata e diviene più ferma, ma sempre progredendo». «Il cambiamento è necessario» mentre invece «l’indietrismo è inutile», perché parte dalla «visione errata della dottrina della Chiesa come un monolite». Il movimento all’indietro forma qualcosa di chiuso e di sconnesso dalle radici della Chiesa, perdendo la linfa della rivelazione. Questo è il vero cambiamento: verso l’alto. «Se non cambi verso l’alto, te ne vai indietro, e allora assumi criteri di cambiamento diversi da quelli che la stessa fede ti dà per crescere e cambiare».
[Il documento sviluppa in modo più articolato alcuni temi di un intervento predisposto dal vescovo Marco Busca su invito del Rotary Club di Mantova]
[1] G. Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, Dehoniane, Bologna 2017, 15.
[2] P. Coda, La Chiesa è il vangelo. Alle sorgenti della teologia di papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, 59-60.
[3] Cfr. Francesco, Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo, 19.03.2022.
[4] Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015.
[5] Nuno Tovar de Lemos, «“Tutti, tutti, tutti”. Accoglienza o relativismo nella Chiesa cattolica», La Civiltà Cattolica 4161 (2023, IV) 276-289.
[6] Francesco, Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, 17 ottobre 2015.
[7] G. Crisostomo, Explicatio in Psalmos, 149.
[8] M.G. Masciarelli, La sinodalità, eredità conciliare, Osservatore romano, 12 ottobre 2020.
[9] Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015.